Erri De Luca e la bibbia
il traduttore ed il commentatore di quelle antiche storie
La traduzione è un atto di ammirazione. Comporta un'emozione, un arrossamento. Chi lo compie deve rinunciare alla propria letteratura per condurre un mezzo di trasporto. Il traduttore è un autista. È il suo carico a essere letterario.
Erri De Luca
ripetizioni
Non piace ai traduttori lo stile ripetitivo della bibbia. Quelle frasi che si ricalcano l’una sull’altra con parole identiche che sembrano ripetersi inutilmente. Tutte le versioni cambiano allora le parole, in base al principio di una maggiore leggibilità del testo. Si perde così il colore originale del testo, quelle sottolineature volute dagli antichi autori. Perché anche qui la solita giustificazione è quella di prendersela con presunte limitatezze della lingua ebraica. L’ebraico biblico è una lingua evoluta. Ogni parola possiede un suo nutrito gruppo di sinonimi. Là dove lo scriba voleva variare poteva variare. Per esempio nel salmo 119, architettonicamente costruito sul numero 8, la parola “legge” viene espressa in otto sinonimi. Là dove lo scriba non voleva ripetere delle parole già scritte o un discorso già fatto scriveva “… e disse quindi tutte quelle parole”. Quando c’è una ripetizione, quindi, questa è voluta. Può essere questa una micro-ripetizione di parole o particelle nella frase o macro-ripetizione di interi discorsi. Esistono anche ripetizioni di interi capitoli, come i sette capitoli che descrivono la tenda del convegno interamente ripetuti una seconda volta nello stesso libro. Erri De Luca le rispetta e riporta tutte. Inoltre traduce ogni vocabolo sempre con lo stessa parola italiana, cosa che non accade nelle altre versioni, dove il lettore è lasciato sempre col dubbio davanti ad ogni parola, costretto perennemente a chiedersi: “ma il testo ebraico diceva proprio così?”.
un problema solo culturale
Nelle discussioni teoriche sulla traduzione del libro si pongono in genere
problematiche di ordine etico e teologico a mio avviso fuorvianti. Non credo che
una traduzione per quanto negativa sia possa mai fuorviare dal contenuto di un
brano. Il messaggio puramente etico sarà sempre salvaguardato. Così per
l’insegnamento teologico. La bibbia anzitutto non è mai teologica, perché
all’antico Israelita non viene mai in mente di chiedersi chi sia Dio, dove sia,
come si comporta. Ad egli interessa cosa sia l’uomo semmai, come egli debba
vivere, cosa fare, come campare, in relazione a questo strano mondo prima che a
Dio. Da qui certe sensibilità di De Luca trovano un riscontro a mio parere molto
preciso. La teologia è contenuta tutta nella tradizione. Diventa inutile e
fuorviante cercare appoggi nella bibbia a certe idee là del tutto assenti.
Un problema solo culturale quindi. Ciò sembra essere poca cosa, sembra
minimizzare i problemi, ridurli a questioni di forma. Ma non è così. Si tratta
anzi della peggiore difficoltà, in quanto sfuggente ad analisi, oscurata da
cecità di vario grado. Questione di sola sensibilità, che tuttavia crea
sbarramenti e muri. Non viene affatto compreso quanto possa essere o
sembrare cattivo un certo linguaggio, come possa essere o sembrare ipocrita alla
sensibilità di molti. L’esempio più comprensibile resta quello dei canti di
parrocchia. Canzoni inventate per attirare i giovani, pochi si rendono conto che
hanno attirato un piccolo numero di giovani e ne hanno respinto la maggior
parte. Non è cosa da poco tradurre la bibbia con terminologie e linguaggi
strettamente legati a un ristretto modo di pensare.
Somma responsabilità anche dal solo punto di vista laico. Modi di dire e
soprattutto di pensare derivano direttamente dalla bibbia, anche in chi non la
ha mai letta. Lutero tradusse la bibbia in tedesco, e fu un fatto che cambiò la storia
della Germania. È questione che riguarda tutti.
tradotto alla lettera?
Impossibile. Impossibile che si possa tradurre alla lettera. Ogni parola
ebraica corrisponde ad almeno una decina di parole italiane, quale di queste
usare… sempre si tratta di soggettiva scelta del traduttore. Lehem è il “pane”,
il pane è pane, certo, ma tov significa sia bello che buono, due aggettivi
differenti per noi, tra cui il traduttore deve scegliere. Nemmeno Erri De Luca
con le sue versioni strette alla sequenza di parole può dirsi fedele alla
lettera. Tradurre l’ebraico è sempre un interpretare e sempre un po’ tradire.
Ma c’è un concetto a mio parere molto importante che De Luca esprime con
chiarezza. Ciò che lui tenta, traducendo in quel modo, è di consegnare al
lettore un senso di limitatezza e di malinconia verso il testo originale, un
desiderio magari destinato a restare inappagato di leggere direttamente quelle
storie con tutte quelle sfumature che nel trasferimento da una lingua ad
un'altra si perdono. Un concetto che esprime meglio in Esodo/Nomi, (libro tra
quelli che non ho più sottomano per colpa di un mallitto trasloco). Anche la
versione CEI del ’74 possiede un po’ questa caratteristica, di non bloccare in
frasi definite il significato. Nelle versioni moderne invece tutto è
perfettamente fissato nella sua comprensione. Il lettore legge il brano tradotto
in parole correnti, spesso parole del linguaggio da azienda, e rimane con la
sensazione di aver tutto perfettamente capito. Tutto OK, tutto compreso. Viene
uccisa quella spinta a meditare, a farsi rigirare in testa quelle parole e
quelle frasi, quell’umiltà indispensabile a chi è desideroso di ascoltare. Il
rischio può essere anche l’opposto, quello cioè di desacralizzare troppo,
svuotare il testo biblico di quella pluralità e profondità di senso datagli
dalla sua composizione millenaria, fatta di revisioni, riscritture, accurate
limature date nei secoli dalla meditazione di antichi scribi, meditazione
inoltre ispirata per chi è credente. Un
paragone lo si può fare con chi va al cinema a vedersi un film americano
ambientato nel medioevo, chessò, su Carlo Magno. Uscito dalla sala egli può
essere convinto di aver imparato la vicenda di Carlo, di aver capito quel
periodo storico a cavallo dell’800, si concede anche di giudicare la cultura del
medioevo.
gli Eschimesi
Gli Eschimesi hanno molte parole singole per indicare le diverse qualità della neve: "qanik" è la neve polverizzata, a grani sottili, "apuhiniq" la neve che il vento ha compresso in dure barricate, "maniilaq" le zolle di ghiaccio, "Hiku" il ghiaccio permanente ecc. E' questo il classico esempio che si fa per dire che ogni traduzione ha sempre una sua povertà congenita. Per noi esiste la neve e basta. Come al solito è necessaria l'umiltà di riconoscere la limitatezza della cultura nostra che non può comprendere tutto di una altra cultura. Nel caso degli Eschimesi (come si scrive Eschimesi o Esquimesi?!) non abbiamo difficoltà ad accettare una nostra assoluta incompetenza in fatto di neve rispetto a loro. Essi ci vivono nella neve, ci devono sopravvivere, è ovvio che la conoscono meglio di noi. Diversamente accade però nel campo dello spirito. E' raro che si riesca ad ammettere incompetenza. Come? Noi occidentali, figli dei Greci, con la scolastica, con gli Hegel, con gli Heidegger, siamo incapaci di capire i concetti spirituali degli antichi Israeliti?
intellettuali?
Ci si chiede se queste siano questioni che interessano solo qualche strano intellettuale dei tempi moderni. La domanda viene spesso quando si leggono altri libri sulla bibbia, più "normali", testi in cui queste questioni nemmeno esistono.
E' una domanda molto utile, se si tratta di problemi per filologi e specialisti e intellettuali di naso fino o di qualcosa di popolare. E' utile considerare esperienze di altre culture. Gli ebrei leggono in ebraico la bibbia. Ciascuno ha l'obbligo di imparare l'antica lingua. Lo stesso fanno i musulmani. Non sono ammesse traduzioni del Corano, se non per fini didattici. Chi si converte all'islam ha l'obbligo di imparare almeno i rudimenti della lingua. Ancora la medesima cosa accade per l'Ortodossia. In Albania la lingua madre è l'albanese ma la liturgia è in greco. E fino a pochissimo tempo fa da noi c'era il latino. Si conclude che quello della lingua e dei limiti delle traduzioni è un problema che sempre si è sentito fortemente, tanto appunto da non farle e ancorarsi alla sola lingua originale.
il nome di Dio
Erri De Luca traduce con “Iod” il nome di Dio. È semplicemente il nome della prima lettera della parola. Una sigla insomma. Si allinea con la tradizione rabbinica che evitava di pronunciare il nome per rispetto. I rabbini puntinatori, coloro che misero i puntini delle vocali al testo sacro, cambiavano le vocali del nome di Dio con quelle di altri titoli, adonai, “signore mio”, o elohim, “dio”. Nulla di misterioso in ciò, anche se successive elaborazioni medievali creeranno il mistero del tetragramma. Non si voleva che si pronunciasse per creare una semplice separazione, ossia per sacralizzarlo. “Sacro” significa semplicemente “separato” per gli antichi Israeliti.
... e le tue traduzioni?
Per quanto riguarda le mie traduzioni, credo che abbiano a che vedere con
un desiderio di prendere alla lettera - e, dunque, ridare il posto principale a
- quel formato iniziale della rivelazione che è l'ebraico antico. Di norma, le
traduzioni sono belle perché sono belle nella lingua d'arrivo. Le mie traduzioni
sono un po' ingessate nella lingua d'arrivo.
Qui non posso non smentirti... la lingua delle tue traduzioni è bella proprio
perché lascia trasparire in filigrana questo tuo disegno poetico di recupero
dell'origine. Potresti togliermi un'altra curiosità: quando ti è nata questa
passione per gli studi e la lingua ebraica antica? E come ti ci sei avvicinato?
È stata un'esperienza da autodidatta?
Ho cominciato una ventina d'anni fa. A quell'epoca facevo il mestiere di
operaio... non era uno stare da una parte della società: era un mestiere e
basta. Dopo le lotte davanti alla FIAT dell'autunno dell'80 contro le espulsioni
di migliaia di operai, mi sono trovato nei miei trent'anni con quel mestiere e
una vasta solitudine intorno. Ho cominciato a frugare dentro qualche antichità:
forse per ostilità nei confronti di ciò che mi era contemporaneo, di ciò che mi
trovavo intorno. Così mi sono imbattuto in quelle storie, e mi sono sembrate
magnifiche. Lentamente, senza dover preparare esami o consegnare compiti, ma
semplicemente per curiosità e per compagnia, ho cominciato a sfogliare qualche
grammatica di ebraico e a farci dei piccoli progressi dentro, fino ad arrivare
ad assaggiare quella lingua nel suo formato originale. Ciò ha contribuito a
darmi voglia di continuare; sono divenuto un frequentatore di quelle scritture,
un lettore assiduo, quotidiano (le ho lette anche stamattina). Non possiedo
nessuna forma di autorità sull'ebraico antico, se non la mia continua intimità.
Intervista di Michele Stanco nel sito web della Università di Trento
Com’è nato in lei l’interesse per l’ebraico antico, la lingua della bibbia, di cui ha tradotto alcuni libri?
Intorno ai trent’anni facevo il mestiere di operaio, venivo da una comunità che si era appena disciolta, e mi trovavo in un deserto della mia vita e del mondo intorno. Avevo dunque bisogno di approfondire quel deserto, non di cavarmene. L’ebraico antico e quelle storie remote che non alludevano a niente, che non erano letteratura, che non volevano stare vicine a nessun lettore, anzi erano il posto più lontano possibile, quelle storie mi hanno spinto nella loro direzione desertica. Allora per me piantare un’ora di studio e di lettura di quelle storie al mattino presto, prima di andare a lavoro, significava risvegliarmi, fare una passeggiata nel deserto e poi tornare indietro. Ho avuto un rapporto fisico con quella lingua, mi ha consolato e nello stesso tempo ha approfondito le distanze con Dio, con cui non ho nessun rapporto, a cui non posso rivolgermi né dare del tu. Non escludo che esista nella vita degli altri, ma certamente lo escludo per me. Ho conosciuto anche molto da vicino dei cattolici: al tempo del conflitto di Bosnia, sono andato coi loro convogli come autista su e giù per quelle strade e per quella guerra. E loro erano completamente imbottiti di quella fede, di quella relazione. Non potevo pensare che si sbagliassero, semmai ero io che non avevo nessuna possibilità di avere a che fare con quella relazione e con quella intensità.
tratto da http://www.italialibri.net/interviste/0404-1.html
appelli
Quali opere ancora potremmo chiedere al nostro... sarebbe bello avere una sua traduzione del Cantico dei Cantici, il forte poema che celebra un amore tra uomo e donna che si nutre solo di odori e sapori. Ha già tradotto il Kohèlet, ma ci piacerebbe sentire anche le tormentate parole di Giobbe. Sarebbe bello avere tutti i salmi, o solo alcuni, l'appassionato 63, il forte 43, il delicato 128.