Sezione 2
STROFA 15
Fiorito è il nostro talamo,
da tane di leoni circondato,
con porpora tessuto,
di pace edificato,
di mille scudi d’oro coronato.
SPIEGAZIONE
1. Nelle due strofe precedenti l’anima sposa ha cantato le grazie e le grandezze del suo Amato, il Figlio di Dio. In questa canta il felice ed eccelso stato in cui si vede posta e la sicurezza che vi gode. Canta, altresì, la ricchezza di doni e di virtù di cui si vede colmata e ricoperta nel talamo dell’unione con il suo Sposo; dice infatti di vivere ormai in unione con l’Amato e in lui di possedere le virtù in tutta la loro pienezza. Dichiara di possedere la perfezione della carità. Dice di godere una perfetta pace e di essere tutta arricchita e abbellita di doni e di grazie, per quanto è possibile possederli e goderli in questa vita. E così dice: Fiorito è il nostro talamo.
2. Questo talamo fiorito è il petto amoroso dell’Amato, sul quale l’anima, divenuta ormai sposa, si abbandona. Esso è fiorito per lei a motivo dell’unione profonda stabilitasi fra i due, mediante la quale vengono comunicate all’anima le virtù, le grazie e i doni dell’Amato, grazie a cui essa è colmata di bellezza, ricchezza e delizie, al punto che le sembra d’essere in un letto di svariatissimi e soavi fiori che la dilettano con il loro contatto e la ricreano con il loro profumo. Per questo motivo l’anima designa tale unione d’amore con Dio come talamo fiorito. Così, infatti, nel Cantico dei Cantici, lo chiama la sposa parlando allo Sposo: Lectulus noster floridus: Il nostro letto è coperto di fiori (Ct 1,15 Volg.). Lo chiama nostro perché le stesse virtù e lo stesso amore, quello dell’Amato, sono ormai d’entrambi, ed entrambi condividono lo stesso diletto, come dice lo Spirito Santo nei Proverbi: Le mie delizie sono tra i figli dell’uomo (Pro 8,31). L’anima dice anche che questo talamo è fiorito, perché in questo stato le sue virtù sono ormai perfette ed eroiche; non poteva essere così finché questo talamo non fosse fiorito per la sua unione perfetta con Dio. Per questo dice: da tane di leoni circondato.
3. Rivestita della forza e della potenza terribile del leone, l’anima paragona qui le virtù già possedute in questo stato alle tane di leoni, che sono molto sicure e al riparo da tutti gli altri animali. Questi infatti, temendo la forza e il coraggio del leone che vi sta dentro, non solo non ardiscono entrare, ma nemmeno osano sostare nei dintorni. Così è di ogni virtù. Quando l’anima possiede una virtù in modo perfetto, questa diventa per lei come una tana di leoni, in cui dimora sicuro lo Sposo forte come un leone, unito all’anima per mezzo di quella virtù e di ciascun’altra. L’anima, da parte sua, unita allo Sposo per mezzo di quelle stesse virtù, è forte come un leone, perché partecipa delle perfezioni dell’Amato. In questo stato l’anima è così ben fortificata da ciascuna virtù in particolare e così ben protetta da tutte le virtù insieme, che nel talamo fiorito dell’unione con Dio il demonio non solo non osa attaccarla, ma nemmeno comparirle dinanzi a motivo del grande timore che prova nel vederla tanto elevata e coraggiosa, perfetta nelle virtù, dentro il talamo dell’Amato. Da quando è unita a Dio per trasformazione d’amore, la teme come fosse lui stesso e non osa nemmeno guardarla (il demonio ha molta paura dell’anima veramente perfetta).
4. Dice anche che il talamo è circondato dalle virtù. In questo stato, infatti, le virtù sono talmente collegate fra loro, che si rafforzano a vicenda e confluiscono tutte nella più alta perfezione dell’anima. Così, non solo il demonio non può entrarvi, ma nessuna cosa di questo mondo, né dall’alto né dal basso, la può turbare, molestare o anche solo toccare. Essendo ormai libera da ogni schiavitù delle passioni naturali, estranea alle tempeste di quaggiù e distaccata dalle vicissitudini degli affanni temporali, gode in tutta sicurezza della partecipazione di Dio. La stessa cosa desiderava la sposa del Cantico dei Cantici quando diceva: Quis det te mihi fratrem meum sugentem ubera ma tris meae, ut inveniam te solum foris, et deosculer te, et iam me nemo despiciat?: Oh, se tu fossi mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi (Ct 8,1). Questo bacio è l’unione di cui sto parlando, nella quale l’anima si fa uguale a Dio per amore. Per questo dice che desidererebbe tanto che l’Amato fosse suo fratello, cioè uguale a lei, e che fosse allattato al seno di sua madre, cioè consumasse tutte le imperfezioni e le passioni della sua natura, ereditate dalla madre Eva. Allora, trovandolo fuori da solo, potrebbe unirsi a lui libera da tutte le cose, spoglia, nella volontà e nell’appetito, di tutto. E nessuno la disprezzerebbe, cioè né il mondo né la carne né il demonio oserebbero attaccarla. Essendo l’anima libera, purificata da tutte le cose e unita a Dio, niente potrebbe infastidirla. Ne consegue che, in questo stato, l’anima gode ormai d’una soavità e pace abituale che non perderà mai più.
5. Ma oltre a quest’abituale e pacifica serenità sogliono aprirsi nell’anima e spandere il loro profumo i fiori delle virtù del giardino di cui sto per parlare, in modo tale che l’anima ha la sensazione di essere colma delle delizie di Dio. Ho detto che i fiori delle virtù sogliono sbocciare nell’anima, perché, sebbene l’anima sia ricolma di virtù perfette, non sempre le gode effettivamente. Ripeto: abitualmente essa gode della pace e della tranquillità che le recano, ma si può dire che dette virtù, in questa vita, sono nell’anima come fiori ancora in boccio, chiusi nel loro giardino. A volte è un incanto vederle aprirsi tutte sotto l’azione dello Spirito Santo e spandere il loro fragrante profumo in tutta la loro varietà. Difatti all’anima potrà accadere di vedere in sé i fiori delle montagne di cui si è parlato, cioè l’abbondanza, la grandezza e la bellezza di Dio. Intrecciati con essi, potrà scorgere i gladioli delle boschive valli, cioè il riposo, il refrigerio e la protezione; e, in mezzo ad essi, le rose olezzanti delle isole inesplorate, cioè le conoscenze straordinarie di Dio. Si vedrà altresì penetrata dal profumo dei gigli dei fiumi gorgoglianti, cioè dalla maestà di Dio, che riempie tutta l’anima. Mescolato a quel profumo troverà quello delicato del gelsomino, che diffonde il suo odore sotto il sibilo dei venti innamorati, di cui si diletta l’anima in questo stato. In una parola, essa gode di tutte le altre virtù e doni menzionati, cioè della conoscenza tranquilla, della musica silenziosa, della solitudine sonora e della cena che ristora e innamora. A volte il piacere che tutti questi fiori insieme danno all’anima è tale che essa può veramente dire: Fiorito è il nostro talamo, da tane di leoni circondato. Beata l’anima che in questa vita ha meritato di sentire talvolta il profumo di questi fiori divini! E aggiunge che questo talamo è con porpora tessuto.
6. Nella sacra Scrittura la porpora indica la carità; di essa si vestono e si servono i re. L’anima dice che questo talamo fiorito è tessuto con porpora, perché tutte le sue virtù, le sue ricchezze e i suoi beni crescono, fioriscono e sono oggetto di godimento nella carità e nell’amore del Re del cielo. Senza quest’amore l’anima non potrebbe godere di questo talamo e dei suoi fiori. Così, tutte queste virtù nell’anima sono in qualche modo tessute con l’amore di Dio, come su un fondo dove si conservano molto bene; tutte e ciascuna sono come immerse nell’amore, perché inducono l’anima a innamorarsi sempre più di Dio; in tutte le cose e le azioni operano con amore per il maggior amore di Dio. Ecco cosa significa l’espressione con porpora tessuto. E dice anche che questo talamo è di pace edificato.
7. Ognuna delle virtù è, per sua natura, pacifica, mite e forte, quindi produce nell’anima che la possiede questi tre effetti: pace, mansuetudine, fortezza. Ora, poiché questo talamo è fiorito, composto cioè dai fiori delle virtù, come ho detto, e tutte queste virtù sono pacifiche, miti e forti, ne consegue che è di pace edificato e l’anima è pacifica, mite e forte. Sono queste le tre proprietà contro cui il mondo, il demonio e la carne non possono combattere. Per mezzo delle virtù l’anima è posta in una tale pace e sicurezza da sembrarle di essere tutta edificata di pace. Dice, inoltre, che questo talamo è di mille scudi d’oro coronato.
8. L’anima chiama scudi le virtù e i doni; questi scudi coronano il suo talamo di delizie, perché le virtù e i doni non soltanto sono corona e premio per chi li ha acquisiti, ma costituiscono pure una difesa, come forti scudi, contro i vizi sconfitti. Per questo il talamo fiorito è coronato dalle virtù, che sono premio per la sposa e suoi scudi di protezione. Questi scudi sono d’oro per indicare il grande valore delle virtù. Lo stesso dice la sposa del Cantico dei Cantici: En lectulum Salomonis sexaginta fortes ambiunt ex fortissimis Israel, uniuscuiusque ensis super femur suum propter timores nocturnos: Ecco la lettiga di Salomone: sessanta prodi le stanno intorno, tra i più valorosi d’Israele…Ognuno porta la spada al fianco contro i pericoli della notte (Ct 3,7-8).
STROFA 16
Dietro le tue vestigia
si lancian le giovani in cammino,
a un tocco di faville,
per l’aromato vino,
effondon un balsamo divino.
SPIEGAZIONE
1. In questa strofa la sposa loda l’Amato per tre favori che egli accorda alle anime devote allo scopo d’incoraggiarle maggiormente e condurle a un più alto grado d’amore di Dio. Poiché essa li conosce per esperienza in questo stato, ne fa menzione qui. Il primo favore divino è una soavità di sé che Dio dona alle anime e che è talmente efficace da farle camminare molto rapidamente nella via della perfezione. Il secondo è una visita amorosa con cui tutto a un tratto accende d’amore le anime. Il terzo è un’abbondanza di carità che infonde nelle anime, con cui le inebria talmente che il loro spirito viene sospinto, sia da questa ebbrezza che dalla visita amorosa, a innalzare a Dio lodi e soavi affetti d’amore. L’anima si esprime dunque così: Dietro le tue vestigia.
2. Le vestigia sono le impronte lasciate da chi le ha impresse e consentono di seguire chi si sta cercando. Ora, la soavità e la conoscenza che Dio dà di sé all’anima che lo cerca sono vestigia o impronte da cui si può riconoscere e cercare Dio. Ecco perché l’anima qui dice al Verbo suo Sposo: dietro le tue vestigia, cioè, seguendo la scia di dolcezza che imprimi e infondi e il profumo che spargi, si lancian le giovani in cammino.
3. Si tratta delle anime devote che, nel giovanile vigore ricevuto dalla soavità delle tue vestigia, corrono qua e là, cioè si muovono verso molte parti e per vie differenti, ciascuna secondo lo spirito che ha ricevuto da Dio o lo stato di vita in cui si trova. Vi sono differenze tra le loro pratiche di pietà e opere spirituali, ma tutte seguono il cammino della vita eterna, cioè la perfezione evangelica. Così, dopo aver praticato la nudità di spirito e il distacco da tutte le cose create, alla fine s’incontrano con l’Amato per unirsi a lui nell’amore. Questa soavità e impronta di sé che Dio lascia nell’anima, le conferisce una grande agilità perché possa corrergli dietro. L’anima si affatica poco o nulla per seguire questo cammino. Al contrario, è mossa e attratta da quest’impronta di Dio, non solo a cominciare questo cammino, ma anche a correre in molti modi, come ho detto, su questa via. Ecco perché la sposa, nel Cantico dei Cantici, chiede allo Sposo questa attrazione divina: Trahe me; post te curremus in odorem unguentorum tuorum: Attirami a te! Dietro a te correremo all’odore dei tuoi profumi (Ct 1,3 Volg.). E dopo aver assaporato questo profumo divino dice: In odorem unguentorum tuorum currimus: adolescentulae dilexerunt te nimis: Corriamo al tuo profumo olezzante: per questo le giovinette ti amano (cfr. Ct 1,3 e 2 Volg.). Dal canto suo Davide afferma: Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore(Sal 118,32). A un tocco di faville, / per l’aromato vino, / effondon un balsamo divino.
4. Nei primi due versi ho spiegato che le anime, dietro le tue vestigia, / si lancian in cammino con esercizi e opere esteriori. Ora, in questi ultimi tre versi, la sposa ci fa comprendere l’esercizio interiore della volontà che tali anime compiono, spinte da due altri favori o visite intime dell’Amato. Essa li chiama tocco di faville e aromato vino; quanto all’esercizio interiore della volontà provocato da queste due visite, lo chiama effusione di balsamo divino. Anzitutto bisogna dire che questo tocco di faville, di cui parla qui, è un tocco delicatissimo che l’Amato a volte fa all’anima, anche quando essa è molto distratta. Questo tocco accende nel suo cuore un tale fuoco d’amore, quasi che fosse scoppiata non soltanto una scintilla di fuoco e l’avesse incendiata! Allora, con grande celerità, come chi si sveglia all’improvviso, la volontà si accende esplodendo in atti di amore, desiderio, lode, ringraziamento, adorazione, stima e preghiera verso Dio con grande gusto d’amore. Tutti questi atti la sposa li chiama effusioni di balsamo divino; corrispondono al tocco di faville uscite dall’amore divino che sprigionò la scintilla; è il balsamo divino che fortifica e guarisce l’anima con il suo profumo e la sua sostanza.
5. Di questo tocco divino parla la sposa nel Cantico dei Cantici in questi termini: Dilectus meus misit manum suam per foramen, et venter meus intremuit ad tactum eius: Il mio Diletto passò la mano per la fessura dell’uscio, e mentre la toccava fremettero le mie viscere (Ct 5,4). Il tocco dell’Amato rappresenta il tocco d’amore concesso qui all’anima; la mano simboleggia il favore che le accorda. La fessura attraverso cui è passata la sua mano indica lo stato, il genere e il grado di perfezione che l’anima possiede: a seconda di tale perfezione, il tocco è più o meno intenso e l’anima possiede tale o tal altra qualità spirituale; per le viscere che fremettero s’intende la volontà che ha ricevuto il tocco; e il fremito significa che gli appetiti e gli affetti dell’anima si elevano a Dio per produrre atti di desiderio, amore, lode e tutti gli altri che ho detto, che sono le effusioni di balsamo che traboccano da questo tocco. Per l’aromato vino.
6. Questo vino aromatico è un altro favore, molto più grande, che Dio talvolta accorda alle anime già progredite. Lo Spirito Santo le inebria con un soave, dolce e forte vino d’amore, che per questo motivo chiama aromato vino. Difatti, come il vino aromatico è fatto fermentare con molte e diverse spezie odorose e corroboranti, così è per quest’amore che Dio concede a coloro che sono già perfetti: è fermentato e depositato nelle loro anime, aromatizzato con le virtù che l’anima ha ormai acquisito. Tale vino, reso aromatico da queste preziose spezie, conferisce all’anima, nelle visite divine, una tale forza e un’ebbrezza così piena e soave da farle indirizzare con una forza e un’efficacia molto grandi quelle effusioni verso Dio, cioè gli atti di lode, amore, adorazione, ecc., di cui ho parlato; tutto questo avviene con uno straordinario desiderio di operare e di soffrire per lui.
7. È opportuno notare che questo favore della soave ebbrezza non passa così rapidamente come la scintilla, ma dura più a lungo. La scintilla, infatti, tocca l’anima e passa, mentre il suo effetto dura per un po’ e, talvolta, anche a lungo. Il vino aromatico, invece, di solito dura a lungo, come l’effetto che produce e che consiste, ripeto, in un amore pieno di soavità nell’anima. A volte può durare uno o due giorni, altre volte più giorni, anche se non sempre con la stessa intensità, perché diminuisce o cresce, indipendentemente dalla volontà dell’anima. Talvolta, senza far niente da parte sua, l’anima sente nel suo intimo che si va soavemente inebriando e infiammando di questo vino celeste, come dice Davide: Concaluit cor meum intra me, et in meditatione mea exardescet ignis, che vuol dire: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco(Sal 38,4). Le effusioni di quest’ebbrezza d’amore a volte durano per tutto il tempo che dura l’ebbrezza stessa. Altre volte, invece, pur essendoci l’ebbrezza, non vi sono queste effusioni e, quando ci fossero, sono più o meno intense, secondo l’intensità dell’ebbrezza stessa. Ma le effusioni e gli effetti della scintilla ordinariamente durano più dell’ebbrezza, anzi essa li lascia nell’anima e sono più vivi di quelli prodotti dall’ebbrezza, perché a volte questa scintilla divina lascia che l’anima bruci e si consumi d’amore.
8. Poiché ho parlato di «vino fermentato», sarà bene notare brevemente la differenza che intercorre tra il vino fermentato, cioè vecchio, e il vino nuovo. È la stessa che passa tra l’amore dei perfetti e quello dei principianti, ed è utile per spiegare un po’ la dottrina riguardante le persone spirituali. Il vino nuovo non ha ancora assimilato e decantato la feccia, bolle esternamente e non se ne può valutare la bontà e la qualità finché non abbia smaltito la feccia e il suo bollore; fino allora corre il rischio di corrompersi, è di sapore aspro e grossolano e fa male a chi ne beve molto. La sua forza è soprattutto nella feccia. Il vino vecchio, invece, ha smaltito e depositato la feccia e non ha quindi i bollori esterni del nuovo; se ne può apprezzare la bontà e non corre più il rischio di corrompersi, perché è passata la fermentazione con i suoi bollori. Così è del vino ben fermentato. È assai raro che si alteri e inacidisca; ha un sapore gradevole e la sua forza risiede nella sostanza stessa del vino e non più nel gusto; dà forza e buon umore a chi lo beve.
9. Quelli che cominciano ad amare e servire Dio sono simili al vino nuovo. Il fervore del vino del loro amore si manifesta molto all’esterno, nei sensi, non avendo ancora smaltito la feccia dei loro sensi deboli e imperfetti; la forza del loro amore risiede nel fervore sensibile ed è questa che ordinariamente li fa agire; per tale fervore si muovono. Non ci si può quindi fidare di quest’amore sensibile, finché non si estinguono quei fervori e gusti grossolani dei sensi. Infatti, come il fervore e il calore dei sensi possono portarli a un amore eccellente e perfetto ed essere un buon mezzo per raggiungerlo, se è ben diretta la feccia della loro imperfezione, così è anche molto facile, in questi inizi e novità di gusti, guastare il vino dell’amore e perdere il fervore e il sapore del vino nuovo. Questi principianti nell’amore provano sempre ansie e pene d’amore sensibile, che devono necessariamente moderare, perché se agiscono a lungo sotto l’influsso di questo fervore sensibile, la loro natura si rovinerà. Finché queste ansie e pene d’amore, cioè il sapore del vino nuovo, resteranno aspre e grossolane e non saranno rese soavi da una completa epurazione, non passeranno, come dirò subito.
10. Nel libro del Siracide il Saggio ricorre a questo medesimo paragone: Vinum novum amicus novus: veterascet, et cum suavitate bibes illud: Vino nuovo, amico nuovo; quando sarà invecchiato, lo berrai con piacere(Sir 9,10). Così, quelli che sono avanzati nell’amore e sono stati provati nel servizio dello Sposo, sono come il vino fermentato che ha smaltito la feccia. Essi non hanno più quei fervori sensibili né l’impetuosità degli ardori esterni; essi gustano la soavità del vino d’amore nella sua sostanza, ben fermentato e depositato nell’intimo dell’anima. Non è il sapore sensibile dei principianti; è il sapore che viene dalla sostanza ed è un sapore spirituale, un sapore vero che si manifesta attraverso le opere. Per questo, essi non si lasceranno andare a gusti e fervori sensibili né li vogliono provare; del resto, chi si lascia andare ai piaceri dei sensi, molto spesso necessariamente proverà pene e amarezze nei sensi. Ora, quelli che sono avanzati nell’amore, sebbene siano privi di quella soavità spirituale che ha la sua radice nei sensi, tuttavia non soffrono più ansie e pene d’amore nei sensi e nello spirito. Così sarà molto difficile che questi vecchi amici vengano meno a Dio, essendo ormai al di sopra di ciò che potrebbe farli cadere, cioè al di sopra dei sensi inferiori. Possiedono il vino dell’amore, vino non solo fermentato e purificato della feccia, ma anche aromatico, mescolato alle spezie suddette delle virtù perfette che non lo lasciano guastare come il vino nuovo. Per questo afferma il Siracide: Amicum antiquum ne deseras, novus enim non erit similis illi, che vuol dire: Non abbandonare un vecchio amico, perché quello nuovo non sarà uguale a lui (Sir 9,10). Questo vino d’amore ben preparato e aromatizzato l’Amante divino lo dona all’anima per procurarle quell’ebbrezza divina di cui ho parlato. Nella forza di quest’ebbrezza l’anima innalza a Dio dolci effusioni. Il senso di questi ultimi tre versi è, dunque, il seguente: al tocco di faville con cui svegli la mia anima e con il vino aromatico con cui la inebri d’amore, essa rivolge a te le effusioni di slanci e atti d’amore che susciti in lei.
STROFA 17
Nella segreta cella
io dell’Amato bevvi e,
quando uscita fui in questa valle,
null’altro più sapevo,
perduto era il gregge che pascevo.
SPIEGAZIONE
1. In questa strofa l’anima canta il sublime favore che Dio le ha fatto accogliendola nell’intimo del suo amore, che è l’unione o trasformazione d’amore in Dio. Parla di due vantaggi che derivano da tale favore, cioè l’oblio o distacco da tutte le cose del mondo, e l’annullamento di tutti i suoi appetiti e gusti. Nella segreta cella.
2. Per dare un’idea di questa cella e spiegare ciò che qui l’anima vuole far capire, occorrerebbe che lo Spirito Santo mi prendesse la mano e dirigesse la mia penna. La cella di cui parla l’anima è il grado più elevato e intimo d’amore a cui possa pervenire in questa vita; per questo la chiama segreta cella, cioè la più interna di tutte. Questo vuol dire che ce ne sono altre meno interne: tali sono i gradi d’amore attraverso i quali si sale per raggiungere quest’ultimo grado. Possiamo dire che questi gradi o celle d’amore sono sette; li si possiede tutti quando si posseggono i sette doni dello Spirito Santo in modo perfetto, secondo le capacità di ricezione dell’anima. Così, per esempio, quando essa arriva a possedere nella sua perfezione lo spirito di timore, possiede nella sua perfezione anche lo spirito d’amore, in quanto il timore, che è l’ultimo dei sette doni, è filiale; ora il timore perfetto di figlio scaturisce dall’amore perfetto di padre. Così, quando la sacra Scrittura vuole presentarci un personaggio perfetto nella carità, dice che ha il timor di Dio. Isaia, profetizzando la perfezione di Cristo, afferma: Replebit eum spiritus timoris Domini: Lo riempirà lo spirito del timore del Signore (Is 11,3 Volg.). Anche san Luca definisce timorato il santo Simeone, quando dice: Erat vir iustus et timoratus: C’era un uomo giusto e timorato (di Dio) (Lc 2,25). Altrettanto si dice di molti altri personaggi della Scrittura.
3. Si ricordi che molte anime arrivano ed entrano nelle prime celle, ciascuna secondo il grado d’amore cui è giunta. Ma in questa vita poche arrivano all’ultima cella, quella più interna; infatti l’unione perfetta con Dio, chiamata matrimonio spirituale, di cui parla qui l’anima, è in questo luogo che si consuma. Ciò che Dio comunica all’anima in quest’intima unione è totalmente ineffabile: non se ne può dire nulla, come non si può dire di Dio qualcosa che corrisponda alla realtà. È Dio stesso, infatti, che si comunica all’anima in un alone di gloria straordinaria e la trasforma in lui; entrambi sono una cosa sola, sebbene non essenzialmente e perfettamente come nell’altra vita, come sono un’unica cosa il cristallo e il raggio del sole, il carbone e il fuoco, la luce delle stelle e quella del sole. Per dare, dunque, un’idea di ciò che riceve in questa cella divina dell’unione, l’anima non dice altro, né credo potrebbe dire qualcosa di più appropriato, se non il verso seguente: io dell’Amato bevvi.
4. Come la bevanda si diffonde e si sparge in tutte le membra e le vene del corpo, così questa comunicazione di Dio si diffonde sostanzialmente in tutta l’anima, o per meglio dire, l’anima si trasforma in Dio; a seconda che la sua sostanza e le sue facoltà spirituali bevono di Dio, essa si trasforma in lui. Il suo intelletto beve sapienza e scienza, la volontà amore soavissimo e la memoria gioia e diletto quando le si presenta il ricordo e il sentimento della gloria. Quanto al primo favore, cioè che l’anima riceva e beva diletto sostanzialmente, essa lo dice nel Cantico dei Cantici in questi termini: Anima mea liquefacta est, ut Sponsus locutus est: L’anima mia si sciolse in delizie appena lo Sposo parlò(Ct 5,6). Qui la parola dello Sposo è il dono di sé all’anima. Che poi l’intelletto beva sapienza, lo dice la sposa nello stesso libro, dove, desiderando arrivare al bacio d’unione e scongiurando lo Sposo di concedere tale favore, aggiunge: Ibi me docebis, et dabo tibi poculum ex vino condito: Colà m’insegnerai la sapienza e la scienza dell’amore, e io ti farò bere vino aromatico (Ct 8,2), cioè il mio amore aromatizzato con il tuo ovvero trasformato nel tuo.
5. Quanto al terzo favore, cioè che la volontà beva amore, lo dice ancora la sposa sempre nel Cantico dei Cantici: Introduxit me rex in cellam vinariam, ordinavit in me charitatem: Il re mi ha introdotta nella cella segreta e ha ordinato in me la carità (Ct 2,4 Volg.), che vuol dire: mi ha fatto bere amore immergendomi nel suo amore, o più chiaramente, parlando con maggior esattezza: ha ordinato in me la sua carità, conformandomi ad essa e adattandola a me. Così l’anima beve dello stesso amore del suo Amato, quell’amore che egli infonde in essa.
6. Se è vero, come dicono alcuni, che la volontà può amare soltanto quello che è stato prima compreso dall’intelletto, ciò va inteso dal punto di vista naturale. Difatti, per via naturale è impossibile amare se prima non si conosce ciò che si ama; ma per via soprannaturale Dio può benissimo infondere amore e aumentarlo, anche senza infondere e aumentare le conoscenze speciali dell’intelletto, come ci fa comprendere il brano citato. Questo fatto, del resto, è stato sperimentato da molte persone spirituali che spesso si sentono ardere d’amore di Dio senza averne una conoscenza più chiara di prima; possono, infatti, comprendere poco e amare molto e comprendere molto ma amare poco. Anzi, le persone spirituali che non hanno conoscenze molto profonde su Dio, abitualmente progrediscono nella volontà: basta loro la fede infusa che si sostituisce alla scienza dell’intelletto. Mediante questa virtù il Signore infonde in loro la carità, l’aumenta e la porta ad agire, cioè ad amare di più, anche se, ripeto, non accresce le loro conoscenze. La volontà, quindi, può bere amore senza che l’intelletto beva nuove conoscenze. Tuttavia, nel caso di cui sto parlando, ove l’anima dice che bevve del suo Amato, si tratta dell’unione nella cella segreta, che, come ho detto, avviene con tutte e tre le potenze dell’anima, le quali bevono tutte e tre congiuntamente.
7. Per quanto concerne il quarto favore, cioè che la memoria beva del suo Amato, è chiaro che l’anima è illuminata dalla luce dell’intelletto. Questo le ricorda i beni di cui si vede arricchita e di cui gode nell’unione con il suo Amato.
8. Questa divina bevanda divinizza, esalta, inebria di Dio l’anima al punto da farle dire: quando uscita fui.
9. Cioè anche quando questo favore è cessato. Occorre dire, infatti, che l’anima resta sempre in questo sublime stato del matrimonio dopo che Dio ve l’ha posta: vi resta con la sua essenza, anche se le sue potenze non sono sempre in unione attuale con Dio. A quest’unione sostanziale dell’anima molto spesso partecipano anche le potenze e bevono a questa cella segreta; l’intelletto allora acquisisce nuove conoscenze, la volontà cresce nell’amore, ecc. Perciò, allorché l’anima dice: quando uscita fui, non si riferisce all’unione essenziale o sostanziale che ha ormai raggiunto e che è lo stato di cui sto parlando, ma all’unione attuale delle sue potenze, unione che, in questa vita, non è e non può essere continua. Quando, dunque, l’anima uscì in questa valle,
10. cioè, nei vasti spazi del mondo, null’altro più sapevo.
11. L’anima, infatti, dopo aver bevuto della più alta sapienza di Dio, ha dimenticato tutte le cose di questo mondo. Le sembra, inoltre, che le conoscenze di prima, e persino le conoscenze umane, a confronto di questa sapienza, siano pura ignoranza. Quella divinizzazione ed elevazione della mente in Dio, in cui l’anima viene come rapita, inebriata d’amore, trasformata tutta in Dio, non le consente di pensare a nessuna cosa di questo mondo, così che può ben dire: null’altro più sapevo. Infatti si ritiene estranea non solo a tutte le cose, ma anche a se stessa, come annichilita, assorbita e dissolta nell’amore; in breve, è passata da se stessa nell’Amato. Questo non sapere lascia intendere la sposa del Cantico dei Cantici, che, dopo aver parlato dell’unione amorosa con l’Amato, dice questa parola: Nescivi: Non seppi (Ct 6,12), cioè ignorai. Una tal anima s’intrometterà poco nelle cose altrui, perché non si ricorda nemmeno delle proprie. Lo spirito di Dio ha la caratteristica d’inclinare subito l’anima in cui dimora a ignorare e a non cercare le cose altrui, soprattutto quelle che non le giovano al progresso spirituale. Lo spirito di Dio nell’anima è uno spirito di raccoglimento, che non si preoccupa affatto delle cose estranee alla salvezza; per questo l’anima resta senza sapere più nulla nel modo consueto.
12. Non si creda, però, che l’anima, in questo stato non abbia più la conoscenza delle cose che aveva prima, pur restando in questo non sapere; la perde solo di vista, non ne ha più il ricordo quando si trova totalmente rapita nell’amore. Questo per due motivi. Il primo perché, allo stato attuale, l’anima, rapita e inebriata da quella bevanda d’amore, non può attualmente occuparsi né prestare attenzione ad altre cose. Il secondo motivo perché quella trasformazione in Dio le offre una tale somiglianza con la semplicità e la purezza di Dio, da lasciarla limpida e pura, spoglia di tutte le forme e le figure che aveva prima, perché l’atto di trasformazione è sempre accompagnato da questi effetti. È così che fa il sole su una vetrata: la penetra, la rende luminosa e impedisce di vedere tutte le macchie e i granelli di polvere che prima apparivano; ma una volta scomparso il sole, vi riappaiono tutte le macchie di prima. Così l’anima, finché dura l’effetto prodotto dall’atto d’amore, permane anche nel non sapere riguardo alle conoscenze naturali che, come si è detto, possedeva in maniera abituale. La trasformazione che ha subito l’ha come infiammata e cambiata in amore, annientando e distruggendo in essa tutto ciò che non era amore, e l’ha lasciata senz’altra scienza se non quella dell’amore. Così si evince dal brano di Davide citato sopra: Quia inflammatum est cor meum, et renes mei commutati sunt et ego ad nihilum redactus sum, et nescivi: Quando s’infiammò il mio cuore e si mutarono i miei reni, fui ridotto a niente e non seppi più nulla (Sal 72,21-22 Volg.). Questo tormento intimo prodotto dall’agitazione del cuore significa che l’anima, insieme a tutti i suoi appetiti, è stata trasformata in Dio e che le sue vecchie abitudini sono state completamente distrutte. Per questo Davide dice che fu ridotto a niente e non seppe più nulla: sono appunto questi gli effetti che dicevo prodotti dalla bevanda nella segreta cella di Dio. Non solo le sue conoscenze precedenti sono ridotte a niente, sembrandogli un nonnulla tutto quel grande sapere, ma anche tutta la sua vita passata e le sue imperfezioni sono annullate: il vecchio uomo è rinnovato. Questo è il secondo effetto che ne risulta e che è espresso nel verso seguente: perduto era il gregge che pascevo.
13. Si ricordi bene: finché l’anima non arriva a questo stato di perfezione di cui sto parlando, per quanto spirituale essa sia, le rimane sempre qualche piccolo gregge di appetiti, di gusti e di altre imperfezioni, naturali o spirituali, dietro a cui cammina; cerca di pascerli, seguendoli e soddisfacendoli. L’intelletto, di solito, si lascia andare a certe imperfezioni nel desiderio di sapere le cose. Quanto alla volontà, si lascia trasportare da piccoli gusti e sentimenti d’amor proprio: sul piano temporale, come il possesso di piccole cose, l’attaccamento a un oggetto piuttosto che a un altro, o alcune presunzioni, come la stima di sé e altri puntigli che ricordano lo spirito e il gusto del mondo; su piano fisico, come preoccuparsi di mangiare o di bere, preferire una cosa piuttosto che un’altra, scegliere e volere sempre il meglio; sul piano spirituale, come cercare le consolazioni di Dio e altre piccole imperfezioni, che non finiremmo mai di elencare, e che ordinariamente hanno le persone spirituali non ancora perfette. Per quanto riguarda la memoria, l’anima nutre svariate preoccupazioni e sollecitudini inopportune che la trascinano dietro di loro.
14. Anche per quanto riguarda le quattro passioni, a volte, l’anima insegue molte speranze, gioie, dolori e timori inutili. Di questo gregge d’imperfezioni, già menzionato, alcuni ne hanno di più, altri meno; procedono dietro di esso, finché entrati a bere in questa cella interiore, lo perdono tutto, rimanendo completamente trasformati in amore, come ho detto. In tale cella questi greggi delle imperfezioni dell’anima si consumano più facilmente che l’ossido e la ruggine dei metalli nel fuoco. E così l’anima si sente ormai libera da tutte le piccolezze delle soddisfazioni e delle meschinerie dietro le quali andava prima, sì da poter ben dire: perduto era il gregge che pascevo.
STROFA 18
Là mi offrì il suo petto,
là m’insegnò scienza assai gustosa,
a lui tutta mi detti,
me stessa per intero;
là gli promisi d’essere sua sposa.
SPIEGAZIONE
1. In questa strofa la sposa racconta come le due parti, cioè Dio e lei, si sono donate l’una all’altra in questo matrimonio spirituale. Dice che nella cella segreta ebbe luogo uno scambio d’amore: Dio si è consegnato a lei, offrendole liberamente il petto del suo amore e insegnandole la sua sapienza e i suoi segreti; da parte sua, la sposa si è consegnata a Dio, donandosi a lui di fatto e per intero, senza riservare nulla né per sé né per altri, proclamandosi sua per sempre. Si commenta il verso: Là mi offrì il suo petto.
2. Offrire il petto a qualcuno è donargli il proprio amore e la propria amicizia, nonché rivelargli i propri segreti, come a un amico. Con le parole: là mi offrì il suo petto, l’anima vuol dire che Dio le ha donato il suo amore e rivelato i suoi segreti, che è quanto Dio fa con l’anima in questo stato. E subito dopo, nel verso successivo, aggiunge: là m’insegnò scienza assai gustosa.
3. La scienza gustosa, che – come dice – le è stata insegnata, è la teologia mistica, o scienza segreta di Dio. Gli spirituali la chiamano contemplazione: è molto gustosa perché è scienza appresa per amore. Dio solo ne è il maestro e rende tutto gustoso. Poiché il Signore infonde questa scienza e conoscenza nell’amore, attraverso cui si comunica all’anima, tale scienza è piena di soavità per l’intelletto, perché è scienza che lo riguarda; ed è anche gustosa per la volontà, perché comunicata nell’amore, che appartiene alla volontà. Ecco perché dice subito: a lui tutta mi detti, / me stessa per intero.
4. Grazie al fatto che ha bevuto alla soave fonte di Dio, l’anima si è inebriata di Dio in tutta libertà e, con grande soavità, si è consegnata a lui. Desidera essere tutta sua per sempre e non trattenere per sé cosa alcuna che possa dispiacergli. In quest’unione, Dio ha operato in lei questa purezza e perfezione, necessarie a tale scopo. Trasformandola in se stesso, l’ha fatta completamente sua e l’ha purificata da tutto ciò che impedisce tale unione. Ne consegue che non solo secondo la volontà, ma anche secondo le sue opere l’anima si dona in realtà tutta intera a Dio, senza riserva alcuna, come Dio si è dato liberamente a lei. In tal modo le due volontà rimangono ripagate, abbandonate e soddisfatte reciprocamente, tanto che nessuna delle due abbandonerà mai l’altra, in questo vincolo di fedeltà coniugale. Per questo l’anima prosegue dicendo: là gli promisi d’esser sua sposa.
5. La sposa non ripone il suo amore, le sue attenzioni e le sue cure in nessun altro se non nel suo sposo. Così si comporta l’anima in questo stato. Gli affetti della sua volontà, i pensieri del suo intelletto, le sue attenzioni come le sue azioni e i suoi desideri, insomma tutto è rivolto a Dio. È come divina, divinizzata, in modo che anche i suoi moti primi non sono contro ciò che ritiene essere la volontà di Dio. Un’anima imperfetta si sente abitualmente inclinata al male, almeno nei suoi moti primi, da parte dell’intelletto, della volontà, della memoria, dei suoi appetiti e delle sue imperfezioni. Al contrario, l’anima elevata a questo stato, con le forze dell’intelletto, della volontà, della memoria e degli appetiti, sin dai primi stimoli, ordinariamente si muove e tende verso Dio, grazie all’aiuto e alla stabilità che ormai ha in Dio e alla perfetta conversione al bene. Davide esprime chiaramente tutto ciò quando, parlando della sua anima in questo stato, afferma: Solo in Dio riposa l’anima mia; da lui la mia salvezza. Lui solo è mia rupe e mia salvezza, mio rifugio: non potrò più vacillare (Sal 61,2-3). Chiamando Dio «mio rifugio», fa capire che la sua anima, essendo ormai stabilita in Dio e unita a lui, nel modo che ho appena esposto, non avrà più nessun movimento contrario a Dio.
STROFA 19
L’alma mia s’è data
con tutta la ricchezza al suo servizio;
non pasco più le greggi,
non ho più altro uffizio:
solo in amar è il mio esercizio.
SPIEGAZIONE
1. Nella strofa precedente l’anima, o meglio, la sposa ha detto che si è donata tutta allo Sposo senza riservare nulla per sé; nella presente strofa mostra in che modo ha mantenuto la promessa. La sua anima ormai, ella dice, il suo corpo, le sue facoltà e tutta la sua abilità non sono più impiegate in altre cose, ma solo per la gloria del suo Sposo. Ella non cerca più il proprio tornaconto né i suoi gusti personali, né tanto meno si occupa in cose e azioni estranee o contrarie a Dio. Anche nei suoi rapporti con Dio non segue altro stile o comportamento che l’esercizio dell’amore, perché ormai ha trasformato tutto il suo agire in amore, come ora si dirà. L’alma mia s’è data.
2. Dicendo che la sua anima si è data, la sposa ricorda il dono che ha fatto di se stessa all’Amato in quest’unione d’amore. È qui che ella si è dedicata e consacrata al suo servizio con tutte le sue facoltà, con il suo intelletto, la sua volontà e la sua memoria. Ha impiegato il suo intelletto nel conoscere ciò che concorre di più alla gloria di Dio e compierlo; applica la sua volontà nell’amare tutto ciò che piace a Dio e nel volgere in tutte le cose l’affetto della volontà a Dio. Si serve, infine, della sua memoria e della sua sollecitudine per ricercare la gloria di Dio e ciò che gli è più gradito. E aggiunge: con tutta la ricchezza al suo servizio.
3. Per tutta la ricchezza l’anima qui intende tutto ciò che appartiene alla parte sensitiva. Che dichiara egualmente consacrata al servizio dell’Amato, insieme alla parte razionale o spirituale, di cui si è parlato nel verso precedente. In questa parte sensitiva è incluso il corpo con tutti i suoi sensi e le sue potenze, sia interiori che esteriori, e tutte le capacità naturali, cioè le quattro passioni, gli appetiti naturali e spirituali, nonché le altre ricchezze, che l’anima ha già consacrato al servizio dell’Amato. Il corpo non si occupa che delle cose divine, mentre l’anima dirige e governa i sensi interni ed esterni facendo convergere in Dio le loro azioni. Quanto alle quattro passioni, esse sono ben occupate in Dio: l’anima non gode se non di Dio, non spera in nient’altro che in Dio, teme solo Dio, si rattrista solo secondo Dio. Tutti i suoi desideri e le sue attenzioni sono rivolte esclusivamente a Dio.
4. Tutta questa ricchezza è impegnata e indirizzata a Dio, anche se l’anima non se ne rende conto, così che tutte le sue parti già nei primi movimenti si portano ad agire in Dio e per Dio; l’intelletto, la volontà e la memoria si rivolgono immediatamente a Dio; gli affetti, i sensi, i desideri, gli appetiti, la speranza, la gioia, insomma, tutti i beni che l’anima possiede tendono istintivamente a Dio, anche se, ripeto, l’anima non si rende conto che sta agendo per Dio. In questa situazione, quindi, l’anima agisce molto spesso per Dio e pensa a lui e alle cose che lo riguardano senza accorgersene e senza ricordarsene. L’uso e l’abitudine acquisiti in simile modo di procedere ormai fanno sì che l’anima non abbia più bisogno di quest’attenzione e di questa sollecitudine o di questi atti di fervore che prima soleva far precedere alle sue azioni. Dal momento che tutte le sue ricchezze sono ormai impiegate per il servizio di Dio nel modo suddetto, l’anima gode necessariamente anche del favore indicato nel verso che segue: non pasco più le greggi.
5. Questa espressione vuol dire: non vado più dietro ai miei gusti e ai miei istinti; li ho riposti in Dio e a lui li ho consacrati; la mia anima non li pascola più né li conserva per sé. E non dice solo che non pasce più le greggi, ma aggiunge anche: non ho più altro uffizio.
6. L’anima s’impegnava in molti compiti inutili, prima di arrivare a fare questa totale donazione di sé e delle sue ricchezze all’Amato. Tutte le abitudini imperfette che aveva, erano altrettante occupazioni. Tali abitudini potevano essere: parlare di cose inutili, pensarle e anche farle, non comportandosi in questo secondo la perfezione. L’anima ha sempre qualche tendenza viziosa che non finisce mai di vincere finché non impiega, concretamente, tutte le sue facoltà al servizio di Dio. al quale, come ho detto, appartengono tutte le sue parole, i suoi pensieri e le sue azioni. Essa non mormora più, né cade in altre imperfezioni nel parlare e neppure riguardo alle altre facoltà. È come se dicesse: non mi occupo o mi impegno in passatempi inutili né nelle vanità del mondo, perché solo in amar è il mio esercizio.
7. Ecco il significato di questa espressione: ormai tutte le facoltà e le capacità della mia anima e del mio corpo, che prima in qualche modo occupavo in cose inutili, ora le ho messe al servizio dell’amore. Questo voleva dire Davide con le parole: Fortitudinem meam ad te custodiam: Custodirò per te la mia forza (Sal 58,10 Volg.), ossia tutte le facoltà della mia anima e del mio corpo si muovono per amore, e per amore soffro tutto ciò che soffro.
8. Occorre ricordare che quando l’anima arriva a questo stato, tutto ciò che compie con la sua parte spirituale e con quella sensitiva, le sue azioni come le sue sofferenze, in qualunque modo avvengano, tutto le procura un amore e un diletto in Dio sempre più intensi. Lo stesso esercizio della preghiera e della conversazione con Dio, che prima era solita tenere su altri argomenti e in altri modi, ora è esclusivamente esercizio d’amore. Per cui, sia che si interessi delle cose temporali che di quelle spirituali, quell’anima può sempre dire che il suo esercizio consiste solo nell’amare.
9. Felice vita, felice stato! Beata l’anima che vi arriva! Là tutto è ormai sostanza d’amore, gioia e delizie del matrimonio, dove la sposa, in tutta verità, può dire allo Sposo divino quelle parole di puro amore che gli rivolge nel Cantico dei Cantici: Omnia poma, nova et vetera, servavi tibi: Tutti i frutti, freschi e secchi, li ho serbati per te (Ct 7,13 Volg.). In altri termini: Amato mio, tutto ciò che è aspro e faticoso io lo voglio per amor tuo, e tutto ciò che è dolce e soave io voglio offrirlo a te. Ma il significato pieno di questo verso è il seguente: l’anima, in questo stato di matrimonio spirituale, abitualmente vive in unione d’amore con Dio; la sua volontà sperimenta costantemente la presenza amorosa di Dio.
STROFA 20
Se d’oggi in poi al prato
non fossi più veduta né trovata,
direte che mi son perduta,
che, errando innamorata,
volli perdermi e venni conquistata.
SPIEGAZIONE
1. In questa strofa l’anima risponde a un rimprovero tacito che le persone del mondo di solito muovono a coloro che si consacrano per davvero a Dio. Li si accusa di essere esagerati nel distinguersi dagli altri; li si rimprovera per la loro separazione dal mondo e per il loro comportamento, ritenendoli inutili per gli affari importanti e persi per tutto ciò che il mondo apprezza e stima. L’anima risponde molto bene a questa critica, facendo fronte molto coraggiosamente a questo e a tutto quanto il mondo potrebbe imputarle, perché, giunta ormai al cuore dell’amore di Dio, ritiene tutto il resto poca cosa. Non solo; ma in questa stessa strofa essa confessa e si gloria di essersi dedicata a simili cose, rinunciando al mondo e a se stessa per il suo Amato. Così – è quanto vuole dire in questa strofa – parlando con le persone del mondo dice che, se ormai non la vedono più intenta ai soliti rapporti e passatempi che prima le erano abituali nel mondo, dicano e credano pure che si è persa e si è estraniata da loro. Ritiene un bene così grande tutto questo, che essa stessa si è voluta perdere, per andare alla ricerca del suo Amato, profondamente innamorata di lui. Affinché vedano il guadagno che essa trae da ciò che si ritiene perdita, e perché non lo ritengano una stoltezza o un’illusione, aggiunge che questa perdita è divenuta il suo guadagno e per questo si è voluta perdere di proposito. Se d’oggi in poi al prato non fossi più veduta né trovata.
2. Per prato ordinariamente s’intende un luogo comune dove la gente è solita radunarsi per riposare e svagarsi e anche dove i pastori pascolano i loro greggi. Qui l’anima per prato intende il mondo, dove i mondani hanno i loro passatempi e le loro relazioni, un vero e proprio pascolo per i greggi dei loro appetiti. L’anima dice quindi alle persone del mondo che se non sarà più veduta né trovata lì, come quando non era tutta di Dio, la ritengano pure persa e lo dicano, perché essa ha piacere che lo dicano: direte che mi son perduta.
3. Chi ama Dio non arrossisce, dinanzi al mondo, per le opere che compie per lui, né le nasconde per vergogna, anche se tutti gliele dovessero contestare. Chi si vergognerà di fronte agli uomini di riconoscere il Figlio di Dio, tralasciando le sue opere, come afferma per bocca di san Luca, lo stesso Figlio di Dio si vergognerà di fronte a suo Padre (Lc 9,26). Pertanto l’anima, spinta dall’amore, si vanta di essere vista mentre compie, per la gloria del suo Amato, un’opera per la quale si è persa a tutte le cose del mondo; e per questo esclama: direte che mi son perduta.
4. Poche persone spirituali mostrano questo coraggio e questa determinazione perfetta nelle loro opere. Indubbiamente alcune pensano di seguire questo atteggiamento e credono addirittura di essere molto avanzate, tuttavia non arrivano mai a perdersi su alcuni punti riguardanti il mondo o la loro propria natura. Esse non compiono per Cristo opere che siano perfette e testimonino il distacco assoluto, non badando a ciò che diranno o penseranno gli altri. Così non potranno asserire: direte che mi son perduta, perché non sono perse a se stesse nelle loro opere. Hanno ancora vergogna di confessare Cristo con le loro opere di fronte agli uomini, perché schiave del rispetto umano. In realtà, non vivono pienamente la vita in Cristo. Che, errando innamorata…
5. Vale a dire: innamorata di Dio, io pratico tutte le virtù, volli perdermi e venni conquistata.
6. Chi è davvero innamorato, è disposto a perdere tutto il resto per ritrovarsi con più guadagno in colui che ama. Per questo l’anima dice che si è voluta perdere di sua volontà. Si è perduta in due modi: prima a se stessa, non badando a sé in nessuna cosa, ma solo all’Amato, consacrandosi a lui di buon grado senza alcun interesse personale o benché minimo tornaconto. In secondo luogo, si è perduta a tutte le cose create, non tenendo conto di niente, se non di ciò che riguarda l’Amato. Questo significa volersi perdere, cioè aver voglia di essere conquistata.
7. Così si comporta l’innamorato di Dio: non cerca guadagno o premio, ma vuole solo perdere tutto e anche se stesso, liberamente, per Dio, e questo lo considera suo guadagno. E di fatto è così, come dice san Paolo: Mori lucrum (Fil 1,21), cioè il mio morire per Cristo è il mio guadagno. Naturalmente si tratta di una morte spirituale a tutte le cose terrene e a se stessi. Per questo l’anima dice: venni conquistata, perché chi non sa perdere se stesso, non sa guadagnare se stesso, anzi si perde, come dice nostro Signore nel vangelo: Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà (Mt 16,25). Volendo interpretare questo versetto in un senso più spirituale e più in linea con il nostro argomento, è opportuno sapere quanto segue: quando un’anima, progredendo nella via spirituale, è giunta al punto di distaccarsi da tutti i metodi e mezzi naturali, di cui si serviva nel suo rapporto con Dio, tanto da non cercarlo più attraverso considerazioni, forme, sentimenti o altri mezzi forniti ad essa dalle creature e dai sensi, ma ha superato tutto questo e ogni altro mezzo umano per intrattenersi con Dio in fede e amore, allora si può dire che ha veramente guadagnato Dio. In realtà, si è perduta per davvero a tutto ciò che non è Dio e a tutto ciò che è in se stessa.
STROFA 21
Di fiori e di smeraldi,
scelti nelle fresche mattinate,
intesserem ghirlande,
nel tuo amore sbocciate
e da un capello mio tutte legate.
SPIEGAZIONE
1. In questa strofa la sposa si rivolge di nuovo allo Sposo per parlargli d’amore e godere della sua presenza. Gli parla della gioia e delle delizie, di cui lei e il Figlio di Dio godono nel possedere in comune ricchezze, virtù e doni che appartengono a entrambi. Gli parla, altresì, dell’uso che fanno di tutto questo patrimonio, scambiandosi a vicenda il loro amore. Per questo, rivolgendosi a lui, gli dice che intrecceranno ghirlande ricche di doni e di virtù, acquisite e meritate in un tempo propizio e favorevole. Saranno ghirlande piene di bellezza e di grazia che lo Sposo nel suo amore nutre per la sposa, sostenute e conservate nell’amore che la sposa nutre per lo Sposo. Questo è il motivo per cui godere delle virtù significa intrecciare ghirlande, perché tutte unite, come fiori nelle ghirlande, le possano godere entrambi nell’amore reciproco. Di fiori e di smeraldi.
2. I fiori sono le virtù dell’anima e gli smeraldi i doni ricevuti da Dio. Ora, questi fiori e smeraldi sono stati scelti nelle fresche mattinate.
3. Vale a dire: sono stati guadagnati e acquisiti in gioventù, simboleggiata dalle fresche mattinate della vita. L’anima dice di averli scelti perché le virtù che si acquisiscono nella giovinezza sono preziose e molto gradite a Dio. È il tempo in cui c’è grande opposizione da parte dei vizi contro l’acquisizione di tali virtù, e d’altra parte la natura è più facilmente inclinata a perderle. Dice di avere colto queste virtù anche perché, cominciando sin dalla giovinezza, le virtù che si acquisiscono sono molto più perfette e preziose. Chiama gli anni della gioventù fresche mattinate perché, come in primavera la freschezza del mattino è più gradevole delle altre parti del giorno, così le virtù della giovinezza sono più gradite dinanzi a Dio. Per fresche mattinate possiamo intendere anche gli atti d’amore per mezzo dei quali si acquisiscono le virtù; essi sono più graditi a Dio di quanto non lo siano i freschi mattini ai figli degli uomini.
4. Per fresche mattinate, inoltre, qui s’intendono le opere fatte nell’aridità e nelle difficoltà spirituali, rappresentate dal freddo delle mattine d’inverno. Queste opere, compiute per Dio nell’aridità di spirito e nel dolore, sono molto gradite ai suoi occhi, perché giovano tantissimo per l’acquisto delle virtù e dei doni. Le virtù acquisite in mezzo a queste difficoltà e prove sono, generalmente, molto più preziose, perfette e solide di quelle acquisite tra le gioie e le consolazioni spirituali. La virtù attecchisce nell’anima al tempo dell’aridità, delle difficoltà, delle prove e delle tentazioni, come disse Dio a san Paolo: Virtus in infirmitate perficitur: La virtù si fa perfetta nella debolezza (2Cor 12,9). Per esaltare, allora, l’eccellenza delle virtù destinate a intrecciare le ghirlande per l’Amato, giustamente è detto che sono scelte nelle fresche mattinate, dal momento che l’Amato si compiace grandemente soltanto dei fiori e degli smeraldi delle virtù e dei doni scelti e perfetti, non di quelli imperfetti. Per questo l’anima sposa qui dice che con essi intesserem ghirlande.
5. Per ben comprendere questo verso, occorre sapere che tutte le virtù e i doni che l’anima e Dio in lei acquisiscono, nell’anima stessa formano come una ghirlanda di vari fiori che le conferiscono una straordinaria bellezza, come se indossasse una veste molto preziosa. Per comprenderlo ancora meglio, si ricordi che come i fiori naturali, via via raccolti, vanno intrecciati nella ghirlanda che essi formano, così le virtù e i doni che si acquisiscono a poco a poco vanno stabilendosi nell’anima. Una volta acquisiti virtù e doni, tutta la ghirlanda della perfezione nell’anima è ultimata. L’anima e lo Sposo, allora, godono della bellezza e dello splendore di questa ghirlanda, proprio come nello stato di perfezione. Queste sono le ghirlande che la sposa, dice, deve intrecciare insieme allo Sposo. Ella deve cingersi e circondarsi di questa varietà di fiori e di smeraldi, ossia di virtù e di doni perfetti, perché sia degna di comparire, rivestita di questo splendido e prezioso ornamento, dinanzi al Re e meritare che egli la renda uguale a sé, facendola sedere regina al suo fianco. È per la rarità della sua bellezza che ha meritato quest’onore. Per questo Davide, rivolgendosi a Cristo, dice a tale proposito: Astitit regina a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate: Alla tua destra sta la regina con veste ricamata d’oro e coperta d’ornamenti (Sal 44,10 Volg.). Detto in altri termini, significa: si è seduta alla tua destra, vestita di amore perfetto e circondata dalla varietà di doni e di virtù perfette. Non dice: io sarò sola a fare ghirlande, e nemmeno: le farai tu da solo, ma: le faremo insieme. L’anima, infatti, non può praticare né raggiungere le virtù da sola senza l’aiuto di Dio, né Dio le può attuare nell’anima senza il suo concorso. È vero che san Giacomo dice che ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce (Gc 1,17), tuttavia, per ricevere questi doni, l’anima deve prepararsi e collaborare. Perciò la sposa dice allo Sposo, nel Cantico dei Cantici: Trahe me post te, curremus in odorem, ecc., ossia: Attirami dietro a te, corriamo! (Ct 1,4). Ciò vuol dire che il movimento verso il bene può venire soltanto da Dio, come si dà a intendere qui. Ma, dice lo Sposo, che non corre solo lui e neppure solo la sposa, bensì corrono tutti e due insieme, ciò che vuol significare l’opera congiunta di Dio e dell’anima.
6. Questo versetto si applica molto bene alla Chiesa e a Cristo; in esso la Chiesa, sua sposa, rivolgendosi a lui, dice: intesserem ghirlande. Per ghirlande intende tutte le anime sante generate da Cristo nella Chiesa. Ciascuna di esse è come una ghirlanda ornata di fiori, cioè di virtù e di doni, e tutte insieme sono una ghirlanda per il capo dello Sposo, Cristo. Queste belle ghirlande possono significare anche quelle che con altro nome vengono dette aureole, anch’esse formate da Cristo e dalla sua Chiesa. Possono essere di tre forme. La prima è composta dai bei fiori bianchi di tutte le vergini, ciascuna con la sua aureola di verginità; tutte insieme formano un’aureola che ornerà il capo di Cristo Sposo. La seconda aureola è formata dai fiori splendenti dei santi dottori; ciascuno con la sua aureola particolare; tutti insieme saranno un’aureola che cingerà il capo del Cristo, al di sopra dell’aureola delle vergini. La terza aureola è quella dei rossi garofani dei martiri, ognuno con la sua aureola di martire; tutti insieme daranno la perfezione ultima all’aureola di Cristo Sposo. Ornato di queste tre aureole, Cristo Sposo apparirà splendente di bellezza e di grazia tanto che in cielo si dirà ciò che la sposa dice nel Cantico dei Cantici: Uscite, figlie di Sion, guardate il re Salomone con la corona che gli pose sua madre nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuore (Ct 3,11). Intrecceremo poi, dice, queste ghirlande nel tuo amore sbocciate.
7. Il fiore delle buone opere e delle virtù è la grazia e il vigore che esse ricevono dall’amore di Dio. Senza quest’amore non solo non sarebbero fiorite, ma sarebbero tutte secche e senza alcun valore di fronte a Dio, anche se umanamente perfette. Ma poiché Dio concede la sua grazia e il suo amore, le opere sono sbocciate nel suo amore e da un capello mio tutte legate.
8. Questo capello significa la volontà e l’amore dell’anima per l’Amato, amore che ha e svolge la funzione del filo nella ghirlanda. Come il filo lega e fissa i fiori di una ghirlanda, così l’amore dell’anima lega e fissa le virtù nell’anima e ve le sostiene. Difatti san Paolo dice che la carità è il vincolo della perfezione (Col 3,14). Le virtù e i doni soprannaturali sono così strettamente dipendenti dall’amore dell’anima che, se si spezzasse questo filo, venendo meno l’amore a Dio, immediatamente si staccherebbero tutte le virtù dall’anima e sparirebbero, come appunto cadono i fiori della ghirlanda quando si spezza il filo che li teneva insieme. Non basta quindi che Dio ci ami per donarci le virtù, ma è necessario che anche noi lo amiamo per riceverle e conservarle. L’anima parla di un capello solo e non di molti, per far comprendere che ormai la sua volontà è unicamente per l’Amato e che è distaccata da tutti gli altri capelli, cioè da tutti gli amori estranei e lontani da Dio. In questo modo esalta il valore e il prezzo di queste ghirlande di virtù. Quando, infatti, l’amore si porta unicamente e tutto intero verso Dio, come l’anima dice qui, anche le virtù sono perfette, compiute e tutte fiorite nell’amore divino, perché, a questo punto, l’amore che Dio nutre per l’anima è inestimabile, secondo quanto essa medesima lascia intendere nella strofa seguente.
STROFA 22
Solo da quel capello
che sul collo svolazzar vedesti,
sul collo mio mirasti,
incantato rimanesti
e in uno dei miei occhi ti feristi.
SPIEGAZIONE
1. In questa strofa l’anima vuol dire tre cose. La prima è ricordare che l’amore con cui sono unite le virtù è solo l’amore forte, perché solo esso può conservarle. In secondo luogo dice che Dio fu fortemente conquistato da questo suo capello, che simboleggia un amore unico e forte. La terza è che Dio si è profondamente innamorato di lei, alla vista della purezza e della saldezza della sua fede. E dice così: Solo da quel capello che sul collo svolazzar vedesti.
2. Il collo significa la forza. Su di esso, dice l’anima, svolazza il capello dell’amore, amore forte che tiene le virtù intrecciate tra loro. Non basta che quest’amore serva solo a conservare le virtù, occorre altresì che sia forte, perché nessun vizio contrario possa, in qualche modo, recare danno alla ghirlanda della perfezione. Le virtù, infatti, sono intrecciate nell’anima in modo tale che, se venisse a mancarne qualcuna, immediatamente scomparirebbero anche le altre. Dove c’è una virtù, ci sono tutte, ma se una manca, mancano tutte. L’anima dice, dunque, che il capello svolazzava sul collo, perché, grazie alla potenza del collo, quest’amore vola a Dio con forza e leggerezza, senza soffermarsi sulle cose create. Come il vento agita e fa svolazzare sul collo il capello, così il soffio dello Spirito Santo muove e solleva l’amore forte perché spicchi il volo verso Dio. Senza questo soffio divino che spinge le potenze dell’anima all’esercizio dell’amore di Dio, le virtù non agiscono né producono effetto alcuno, anche se sono presenti nell’anima. Aggiungendo che l’Amato vide volare il capello sul suo collo, l’anima fa capire quanto Dio stimi l’amore forte. Qui, infatti, «vedere» sta per guardare in un modo tutto particolare, con attenzione e stima, ciò che cade sotto gli occhi. Ora, l’amore forte attira potentemente gli occhi di Dio perché lo guardino. Continua dicendo: sul collo mio mirasti.
3. L’anima dice questo per far comprendere che Dio non solo vede e apprezza quest’amore, ma lo ama anche, appunto perché lo vede forte: il guardare di Dio è amare, come il suo osservare – ripeto – è stimare ciò che osserva. In questo verso l’anima ripete la parola collo e dice parlando del capello: sul collo mio mirasti, perché questo è il motivo per cui l’amò molto: il vederne la forza. L’anima, in effetti, sembra dire: hai amato quest’amore perché forte, libero da ogni pusillanimità o timore e solo, distaccato da ogni altra cosa, dallo slancio agile e pieno di fervore. Per questo aggiunge subito: incantato rimanesti.
4. Oh, meraviglia degna di suscitare la nostra ammirazione e la nostra gioia! Dio fatto prigioniero da un capello! Il motivo di questa preziosa cattura sta nel fatto che Dio ha voluto fermarsi a guardare, cioè amare, come ho detto, il nostro umile essere. Se egli, nella sua grande misericordia non ci avesse guardato e amato per primo, come dice san Giovanni (1Gv 4,10), e non si fosse abbassato, in lui non avrebbe fatto alcuna presa lo svolazzo del capello del nostro misero amore, perché non si sarebbe elevato così in alto da riuscire a catturare quest’uccello divino delle alture. Ma poiché si è abbassato a guardarci, a provocare e sollevare il nostro volo (cfr. Dt 32,11), infondendo coraggio, egli stesso ha voluto farsi catturare nel movimento del capello, cioè egli stesso se ne è invaghito e compiaciuto e ne è rimasto avvinto. Questo vuol dire: sul collo mio mirasti, incantato rimanesti. Così possiamo ben credere che l’uccello dal volo basso possa catturare l’aquila reale dal volo sublime, solo se essa stessa scende in basso per farsi prendere. E in uno dei miei occhi ti feristi.
5. Per occhio l’anima intende la fede. Ci parla di uno solo dei suoi occhi e aggiunge che da questo lo Sposo fu ferito, perché se la fede e fedeltà dell’anima verso Dio non fosse semplice, ma fosse mescolata a qualche rispetto umano o a qualche considerazione terrena, non riuscirebbe a ferire d’amore Dio. L’Amato, quindi, dev’essere ferito da un solo occhio e catturato da un solo capello. Ora, se è vero che l’amore che lo Sposo nutre per la sposa è davvero forte quando vede in lei questa fedeltà unica, tanto che si lascia prendere dal capello del suo amore, è solo dall’occhio della sua fede che si lascia catturare: tale prigionia d’amore è un nodo tanto stretto da provocare nello Sposo una ferita d’amore per la grande tenerezza d’affetto verso la sposa. Concretamente, questo significa introdurla sempre più nell’intimità del suo amore.
6. Nel Cantico dei Cantici lo Sposo, rivolgendosi alla sposa, parla di questo stesso capello e di quest’occhio: Tu mi hai ferito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai ferito il cuore con uno dei tuoi occhi e con un capello del tuo collo (Ct 4,9). Ripete due volte che gli ha ferito il cuore, con l’occhio e con il capello. Per questo l’anima nella strofa ricorda le due cose, per essere riconoscente all’Amato e ringraziarlo di un dono così grande. Essa lo fa per mostrare la gioia e il diletto per essere stata tanto fortunata da aver trovato grazia agli occhi del suo Amato. A lui attribuisce tutta la gloria nella strofa successiva, quando dice:
STROFA 23
Guardandomi, i tuoi occhi
lor grazia m’infondean;
per questo più m’amavi,
per questo meritavan
gli occhi miei adorar quanto vedean.
SPIEGAZIONE
1. È proprio dell’amore perfetto non voler accettare né prendere nulla per sé, ma attribuire tutto all’Amato e nulla a se stesso. Se questa è la legge persino dell’amore umano, quanto più lo è dell’amore di Dio, come logica vuole! Nelle due strofe precedenti la sposa sembrava attribuirsi qualche merito. Diceva, per esempio, che avrebbe intrecciato insieme con lo Sposo le ghirlande e le avrebbero legate con un suo capello, cosa di non poca importanza e valore; si gloriava, inoltre, che lo Sposo si era lasciato catturare da un suo capello e ferire da uno dei suoi occhi, e anche in questo sembrava attribuirsi un grande merito. Ora, nella presente strofa, vuole spiegare le sue intenzioni e dissipare ogni possibile fraintendimento: essa, in verità, si preoccupa e teme che le venga attribuito qualche valore o merito, sottraendo così a Dio ciò che gli è dovuto e che essa vuole dargli. Attribuendo tutto a lui e, nello stesso tempo, ringraziandolo per ogni cosa, dice che il motivo per cui egli si è lasciato catturare da un solo capello del suo amore e ferire dall’occhio della sua fede è perché si è degnato di guardarla con amore, rendendola graziosa e gradevole ai suoi occhi. Per questa grazia e per questo valore da lui ricevuti, essa ha meritato il suo amore e ha potuto adorare il suo Amato in modo a lui gradito e compiere opere degne della sua grazia e del suo amore. Ecco il verso: Guardandomi, i tuoi occhi…
2. Cioè mi guardavi con una speciale tenerezza d’amore. Ho già detto, infatti, che lo sguardo di Dio è amore. Lor grazia m’infondean.
3. Gli occhi dello Sposo significano, qui, la sua divinità misericordiosa. Quando egli si china sull’anima con misericordia, imprime e infonde in essa il suo amore e la sua grazia; allora la rende talmente bella e la eleva tanto, da farla partecipe della natura divina (cfr. 2Pt 1,4). Alla vista di questa dignità e altezza a cui Dio l’ha sollevata, l’anima dice: per questo più m’amavi.
4. Mi amavi molto; non di un amore semplice, ma di un amore raddoppiato, cioè per due motivi o titoli. Ecco perché in questo verso l’anima lascia capire le due ragioni dell’amore che lo Sposo nutre per lei: non solo l’ha amata quando si è lasciato catturare da uno dei suoi capelli, ma soprattutto perché si è visto ferito da uno dei suoi occhi. In questo verso l’anima espone il motivo per cui egli l’ha amata così profondamente: lo Sposo si è degnato di guardarla e, guardandola, l’ha colmata di grazie e l’ha resa degna delle sue compiacenze. Egli le ha accordato amore a motivo di uno dei suoi capelli e ha informato di carità la fede simboleggiata dal suo occhio. L’anima, dunque, dice: per questo più m’amavi. Quando Dio concede all’anima la sua grazia, la rende degna e capace del suo amore. Ciò equivale a dire: poiché avevi posto in me la tua grazia, cioè doni degni del tuo amore, per questo più mi amavi, per questo mi concedevi ancora più grazia. Ciò è quanto afferma san Giovanni: Dat gratiam pro gratia, cioè: Abbiamo ricevuto grazia su grazia (Gv 1,16), il che vuol significare che Dio aggiunge nuove grazie alle prime, perché senza la sua grazia non si può meritare la grazia.
5. Per comprendere questa verità, occorre notare che Dio non ama nulla al di fuori di sé, come non nutre per creatura alcuna un amore che sia inferiore a se stesso. Ama tutto per sé, ragion per cui l’amore è il fine per cui ama. Ecco perché non ama le cose create per se stesse. Questo è il motivo per cui quando Dio ama un’anima, in un certo modo la mette in se stesso, la rende uguale a sé, così che ama l’anima in se stesso e con sé, con lo stesso amore con cui egli si ama. Perciò, per ogni opera che compie in Dio, l’anima, una volta arricchita di questa grazia così elevata, merita l’amore di Dio e Dio stesso. E quindi aggiunge subito: per questo meritavan…
6.In virtù di questo favore e di questa grazia che gli occhi della tua misericordia mi hanno fatto innalzandomi al tuo amore, ottennero e meritarono gli occhi miei adorar quanto vedean.
7. Ciò vuol dire: o mio Sposo, le potenze della mia anima meritarono di essere elevate per guardarti, mentre prima per la miseria delle povere opere e della natura erano decadute e degradate. Infatti per l’anima poter contemplare Dio significa agire con la grazia di Dio. Così gli occhi dell’anima meritarono di adorarlo, perché adoravano con la grazia del loro Dio: adoravano quanto in lui già vedevano, perché illuminati ed elevati dalla sua grazia e dai suoi favori, mentre prima non lo scorgevano a motivo della loro cecità e bassezza. Cos’era, dunque, ciò che vedevano? Vedevano in Dio la grandezza delle virtù, l’abbondanza della soavità, la bontà immensa, l’amore e la misericordia, i benefici innumerevoli ricevuti da lui, sia quando l’anima era in stato di grazia sia quando non lo era. Tutto questo meritavano di adorare lodevolmente gli occhi dell’anima, perché pieni di grazia. Al contrario, prima non meritavano di adorare e vedere tutto questo e nemmeno di pensarlo; grande infatti è la rozzezza e la cecità dell’anima priva della sua grazia.
STROFA 24
Non disprezzarmi adesso,
ché, se colore bruno in me trovasti,
ormai ben puoi mirarmi
dopo che mi guardasti,
grazia e bellezza in me lasciasti.
SPIEGAZIONE
1. La sposa si fa coraggio e nutre apprezzamento per se stessa a motivo dei pegni e dei tesori ricevuti dall’Amato. Pur riconoscendo quanto poco valga e che non merita alcuna stima, tuttavia, in base ai benefici ricevuti dal suo Amato, si rivolge con ardire a lui e gli chiede di non tenerla più in poco conto e di non disprezzarla. Se prima, infatti, la bruttezza della sua colpa e la bassezza della sua natura meritavano tutto questo, una volta che lui l’ha guardata, adornandola con la sua grazia e rivestendola della sua bellezza, può guardarla benissimo una seconda volta e altre volte ancora, aumentando sempre più in essa la grazia e la bellezza. Se l’ha guardata quando non lo meritava e non aveva alcun diritto, tanto più lo può fare ora che vi è una ragione sufficiente: Non disprezzarmi adesso.
2. L’anima non dice questo perché voglia essere tenuta in qualche considerazione; ché, se colore bruno in me trovasti…
3. Cioè: se prima di guardarmi trovasti in me la bruttezza delle colpe e delle imperfezioni e la bassezza della condizione naturale, ormai ben puoi mirarmi / dopo che mi guardasti.
4. Dopo che mi guardasti, togliendomi questo colore nero e ripugnante che mi rendeva indegna di essere guardata, ormai ben puoi mirarmi più volte: non solo mi hai tolto il colore scuro la prima volta, ma mi hai resa anche degna di essere guardata, perché con il tuo sguardo d’amore grazia e bellezza in me lasciasti.
5. Dio si compiace molto dell’anima alla quale ha donato la sua grazia, perché in essa dimora con gioia, cosa che non faceva prima. L’anima si trova in lui onorata ed elevata; essa ne è amata in maniera ineffabile, al punto che egli le comunica sempre più amore in tutte le sue opere e affetti. Elevata nell’amore di Dio e onorata da lui, l’anima cresce sempre più nell’amore e nell’onore che egli le concede, come dice san Giovanni: Dat gratiam pro gratia: Dio dà grazia su grazia (Gv 1,16). Questo anche lascia capire Dio quando, rivolgendosi al suo amico Giacobbe, tramite Isaia dice: Ex quo honorabilis factus es in oculis meis, et gloriosus, ego dilexi te: Dopo che sei divenuto degno d’onore ai miei occhi e glorioso, io ti ho amato (Is 43,4 Volg.). Ciò vuol dire: dopo che i miei occhi hanno diffuso su di te la mia grazia, guardandoti la prima volta, e ti hanno reso degno di onore e di gloria alla mia presenza, hai meritato nuove grazie e favori. Ciò è quanto la sposa rivela alle figlie di Gerusalemme, quando nel cantico dei Cantici dice loro: Nigra sum sed formosa, filiae Jerusalem, ideo dilexit me rex et introduxit me in cubiculum suum: Bruna sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme… perciò il re mi ha amata e mi ha introdotta nelle sue stanze! (cfr. Ct 1,4 e 3 Volg.). Con questo intende dire: non vi meravigliate, figlie di Gerusalemme, se il re celeste mi ha accordato favori così grandi da introdurmi nell’intimo del suo talamo. Anche se per natura sono bruna, e quindi non meritavo niente, egli mi ha rivestita della sua bellezza, perché ha posato su di me il suo sguardo e per questo mi ha amata, ecc.
6. O mio Dio, ben puoi guardare ormai e apprezzare molto l’anima sulla quale, una volta, hai posato lo sguardo. Difatti, dalla prima volta che l’hai guardata, le hai donato dei pegni d’amore tali che essa merita, non una volta soltanto, ma molte volte di essere oggetto dei tuoi sguardi divini, come si legge nel libro di Ester: Hoc honore condignus est, quemcumque rex voluerit honorare: È degno di quest’onore colui che il re vuol onorare (Est 6,11 Volg.).
STROFA 25
Cacciate via le volpi,
ché fiorita ormai è nostra vigna,
intanto che di rose
intrecceremo una pigna
nessuno appaia là, sulla collina.
SPIEGAZIONE
1. A questo punto la sposa vede le virtù della sua anima giunte al loro grado perfetto e gode ormai le delizie, la soavità e la fragranza che esse promanano, come si gusta la vista e il profumo delle piante giunte a completa fioritura. Nel desiderio di trattenere abitualmente questa soavità, senza che nulla ve la ostacoli, in questa strofa chiede agli angeli e ai ministri di Dio di allontanare da lei tutte quelle cose che possono strappare e rovinare il fiore e la fragranza delle sue virtù. Sono i turbamenti, le tentazioni, le inquietudini, gli appetiti, se ancora restano, le immaginazioni e altri moti naturali e spirituali, che qui chiama volpi. Ordinariamente essi impediscono all’anima di cogliere il fiore della pace, della quiete e della dolcezza interiore, proprio nel momento in cui lo sta gustando nelle sue virtù, insieme all’Amato. A volte l’anima può notare nel suo spirito tutte le virtù che Dio le ha donato, quando egli la illumina con la sua luce. Inondata di straordinarie delizie e di soavità d’amore, l’anima le unisce tutte e le offre all’Amato come un fascio di fiori. Quanto più grande è l’amore, tanto più grande è il fascio. Quando l’Amato lo riceve, come di fatto avviene, ottiene una grande gloria, perché insieme alle virtù l’anima offre se stessa, e questo è il più grande onore che possa rendergli. Ma è, altresì, una delle gioie più intime che l’anima prova abitualmente nel suo rapporto con Dio, quando è colmata, a sua volta, del dono che essa ha fatto al suo Amato. L’anima, quindi, desiderando che nulla impedisca questo diletto interiore, simboleggiato dalla vigna in fiore, chiede che le siano tolti non solo gli ostacoli suddetti, ma aspira a trovarsi in una solitudine profonda nei confronti di tutte le cose, in modo che tutte le potenze e gli appetiti, interiori ed esteriori, non trovino forma o immagine o altro che appaia e si presenti a essa e all’Amato. Nella solitudine e nella reciproca unione stanno componendo e godendo questo fascio di fiori. Cacciate via le volpi, ché fiorita ormai è nostra vigna.
2. Qui per vigna s’intende il vivaio di tutte le virtù di quest’anima santa, le quali le danno un vino dal dolce sapore. Questa vigna dell’anima è fiorita quando, mediante la volontà, è unita allo Sposo e si applica a riporre la sua gioia in lui e le sue delizie in tutte queste virtù riunite insieme. A volte, in questo tempo, si affacciano alla memoria e alla fantasia molte rappresentazioni e diversi pensieri, mentre nella parte sensitiva si sollevano molteplici moti e svariati appetiti. Questi, ripeto, vengono, con la loro sottigliezza e vivacità, a molestare l’anima e a turbare la soavità e la quiete interiore di cui essa gode. Del resto i demoni, gelosi della sua pace e del raccoglimento interiore, insinuano allo spirito orrori, turbamenti e paure, tutte cose che l’anima chiama volpi. Difatti, come le agili volpi astute danneggiano e distruggono ordinariamente con i loro balzi i fiori della vigna, al momento della fioritura, così gli abili e astuti demoni causano i turbamenti e le agitazioni di cui ho parlato prima e con i loro assalti turbano la devozione delle anime sante.
3. La sposa del Cantico dei Cantici chiede la stessa cosa: Cápite nobis vulpes parvulas, quae demoliuntur vineas; nam vinea nostra floruit: Prendeteci le volpi piccoline che devastano le vigne, perché la nostra vigna è in fiore (Ct 2,15). Non solo per questo l’anima vuole che si catturino le volpi, ma anche perché possa attuare ciò che esprime nei versi successivi: intanto che di rose intrecceremo una pigna.
4. In questo tempo in cui l’anima gode dei fiori di questa vigna e trova le sue delizie sul petto dell’Amato, accade che le virtù dell’anima le si manifestino in tutta evidenza, come ho detto, e in un istante; mostrandosi all’anima, le procurano una grande dolcezza e una gioia ineffabile. L’anima sente queste virtù in sé e in Dio, per cui le sembra di essere una vigna tutta in fiore e gradita, dove lei e il suo Amato si nutrono e si dilettano. E allora l’anima raccoglie tutte queste virtù, emettendo atti d’amore assai gradevoli con ciascuna di esse in particolare e con tutte quante insieme; una volta che le ha riunite, le offre all’Amato con grande tenerezza d’amore e soavità. In tutto questo l’aiuta l’Amato stesso, perché senza il suo favore e il suo sostegno non potrebbe raccogliere e offrirgli queste virtù; per questo dice: intrecceremo una pigna, cioè l’Amato e io insieme.
5. Chiama pigna quest’insieme di virtù, perché come la pigna è un insieme compatto, costituito da molti pezzi strettamente congiunti, i pinoli, così questa pigna di virtù intrecciata dall’anima per il suo Amato è un insieme di perfezioni dell’anima, che racchiude saldamente e ordinatamente molte perfezioni, robuste virtù e ricchi doni. Tutte le perfezioni, le virtù e i doni, infatti, si armonizzano e convengono in un’unica perfezione dell’anima; tale perfezione si sta formando per mezzo dell’esercizio delle virtù e, una volta formata, viene offerta dall’anima all’Amato nello spirito d’amore di cui sto parlando. Occorre quindi cacciare via le volpi, perché non ostacolino l’intima comunicazione tra questi due interlocutori. In questa strofa la sposa non chiede solo di poter intrecciare bene la pigna, ma chiede altresì ciò che è detto nel verso seguente: nessuno appaia là, sulla collina.
6. Per questa divina esperienza interiore sono, inoltre, necessarie la solitudine e il distacco da tutte le cose che potrebbero turbare l’anima, sia nella sua parte inferiore, cioè quella sensitiva, che nella parte superiore, ossia quella razionale. Queste due parti racchiudono tutta l’armonia delle potenze e dei sensi dell’uomo. Tale armonia è qui chiamata collina. Chiede che nessuno appaia sulla collina, cioè nessun oggetto appartenente a qualcuna delle potenze o dei sensi, di cui si è detto. È come se dicesse: in tutte le potenze spirituali dell’anima, cioè l’intelletto, la memoria e la volontà, non ci sia conoscenza o affetto particolare né alcun’altra distrazione; in tutti i sensi e le facoltà corporali, come l’immaginazione, la fantasia, i cinque sensi esterni, non ci siano altre forme, immagini o figure di alcun oggetto, né operazioni naturali.
7. L’anima qui dice che, nel corso della comunicazione con Dio, è necessario che tutti i sensi, interni ed esterni, siano inattivi e vuoti, perché quanto più agiscono tanto maggior disturbo recano. Quando l’anima perviene all’intima unione con Dio, non operano più le potenze spirituali e ancor meno quelle corporali, perché si è già realizzata in lei quest’unione d’amore e non ha più bisogno di queste mediazioni per giungervi. L’unica cosa che fa l’anima insieme all’Amato, è restare in quest’esercizio pieno di soavità, al quale è stata elevata, e che consiste nello sprofondarsi sempre più nell’unione d’amore. Nessuno appaia, dunque, sulla collina, così che solo la volontà sia presente all’Amato per offrire se stessa e tutte le virtù nel modo sopra descritto.
STROFA 26
Férmati, borea morto,
vieni, austro, a suscitar gli amori,
soffia pel mio giardino,
diffondine gli aromi
e pascerà l’Amato in mezzo ai fiori.
SPIEGAZIONE
1. Oltre a quanto detto nella strofa precedente, anche l’aridità di spirito impedisce all’anima sposa di gustare le dolcezze interiori di cui ha parlato prima. Temendo questo, l’anima nella presente strofa fa due cose. Anzitutto cerca d’impedire l’aridità spirituale, avendo cura di non trascurare la devozione per non lasciarla entrare. In secondo luogo invoca lo Spirito Santo con una preghiera perseverante, perché allontani da lei quest’aridità, accresca la sua devozione e la induca a praticare interiormente le virtù. Tutto questo serve perché il suo Amato provi gioia e sempre più si compiaccia della sua vita virtuosa. Férmati, borea morto.
2. Borea è un vento molto freddo e secco, che fa appassire i fiori. E poiché l’aridità spirituale produce nell’anima questo medesimo effetto, la sposa la chiama borea; e morto, perché essa soffoca e uccide il soave gusto spirituale. A motivo, perciò, dei suoi effetti, l’anima la chiama borea morto. La sposa desidera, dunque, mantenersi nella soavità dell’amore, per questo comanda all’aridità di fermarsi. Questo indica la diligenza che l’anima deve coltivare per impedire all’aridità di progredire, tenendosi lontana dalle occasioni pericolose. Vieni, austro, a suscitar gli amori.
3. L’austro è un altro vento, comunemente detto libeccio. È piacevole, porta la pioggia, fa germogliare erbe e piante, fa sbocciare i fiori e spande i loro profumi; ha quindi effetti contrari a quelli della tramontana o borea. Questo vento simboleggia per l’anima lo Spirito Santo, che, dice, suscita gli amori. Quando questo vento divino investe l’anima, la penetra in modo tale da infiammarla tutta: l’accarezza, la ravviva, ne risveglia la volontà, conduce all’amore di Dio i suoi affetti, che erano affievoliti e sopiti. Ben si può dire, allora, che suscita gli amori dell’Amato e dell’anima. Soffia pel mio giardino.
4. Ho già detto che l’anima della sposa è la vigna fiorita di virtù; qui la si chiama anche giardino, dove sono piantati i fiori della perfezione e delle virtù. Osserviamo qui che la sposa non dice: spira nel mio giardino, ma: spira per il mio giardino, perché vi è una grande differenza tra lo spirare di Dio nell’anima e lo spirare per l’anima. Spirare nell’anima è infondervi grazie, doni e virtù. E spirare per l’anima esprime il tocco che Dio dà alle virtù e alle perfezioni che essa già possiede, rinnovandole ed eccitandole in modo che effondano una meravigliosa fragranza e soavità nell’anima, proprio come quando, rimestando le erbe aromatiche, si spande la loro fragranza, che prima non era né si sentiva così forte. Non sempre l’anima avverte o gode effettivamente le virtù che possiede in sé acquisite, perché, ripeto, in questa vita esse sono nell’anima come fiori in boccio, ancora chiusi, o come erbe aromatiche in un sacchetto, il cui aroma non si sente finché non ne vengono estratte e agitate.
5. A volte, però, Dio accorda tali grazie all’anima sposa. Spirando con il suo Spirito per questo suo giardino fiorito, schiude tutti i boccioli delle virtù e scopre tutte queste piante aromatiche di doni, perfezioni e ricchezze dell’anima; e, manifestandone il tesoro e l’abbondanza interiore, ne svela tutta la bellezza. Allora è meraviglioso vedere e soave sentire la ricchezza dei doni che si scopre all’anima e la bellezza di questi fiori di virtù, ormai tutti sbocciati nell’anima. Ognuno di essi, secondo le sue proprietà, le comunica la soave fragranza. Ciò è quanto l’anima chiama effusione dei profumi nel giardino, di cui parla nel verso che segue: diffondine gli aromi.
6. Tali aromi, a volte, sono talmente abbondanti che l’anima ha l’impressione di essere vestita di delizie e immersa in una gloria inestimabile. Il profumo è così forte che è provato non solo dentro l’anima, ma suole riversarsi altresì all’esterno: lo sanno riconoscere coloro che ne hanno fatto esperienza. L’anima sembra a costoro come un giardino meraviglioso, pieno di delizie e di ricchezze divine. Non solo quando questi fiori di virtù sono schiusi si riesce a scorgere tutto ciò in tali anime sante, ma esse mostrano abitualmente in sé un certo non so che di grandezza e dignità che, negli altri, ispira venerazione e rispetto: è un effetto soprannaturale, questo, che si diffonde in esse per l’intima e familiare comunicazione con Dio. Il libro dell’Esodo (cfr. 34,30) ce ne offre un esempio. Ivi si legge che gli ebrei non potevano guardare il volto di Mosè per la gloria e l’onore che irradiava dopo aver parlato faccia a faccia con Dio.
7. Lo Sposo, il Figlio di Dio, si serve del soffio dello Spirito Santo per fare nell’anima una visita amorevole e comunicarsi a lei in modo assai sublime. È a questo scopo che le invia, come fece per gli apostoli, dapprima lo Spirito Santo, suo precursore, perché gli prepari una dimora nell’anima, sua sposa: la colma di delizie, dispone a suo piacere il giardino della sua anima, vi fa sbocciare i fiori e risplendere i suoi doni; insomma, la riveste dell’insieme delle sue grazie e delle sue ricchezze. E così, con il desiderio più ardente possibile, l’anima sposa anela a tutto questo, cioè che cessi la tramontana, venga l’austro e soffi per il suo giardino, perché in questo modo ella guadagna molte cose insieme. Ottiene, infatti, di godere delle sue virtù, pervenute al punto in cui sono esercitate con la soavità dell’amore. Vi guadagna di vedere l’Amato compiacersi in mezzo a queste virtù, perché per loro tramite si comunica all’anima con un amore più intenso e le concede grazie più singolari di prima. Vi guadagna che l’Amato si compiaccia di più in lei, che si esercita nella pratica delle virtù, ed è ciò che rallegra maggiormente l’anima, cioè volere quello che piace al suo Amato. Vi guadagna, altresì, il favore di veder permanere il sapore e la soavità delle virtù; ciò perdura nell’anima tutto il tempo in cui lo Sposo rimane in essa nel modo suddetto, mentre la sposa gli dona la soavità delle sue virtù, come essa medesima afferma nel Cantico dei Cantici: Cum esset rex in accubitu suo, nardus mea dedit odorem suavitatis: Mentre il re è sul suo giaciglio, cioè nell’anima, il mio alberello odoroso spande il suo dolce profumo (Ct 1,12). L’alberello odoroso, composto di molti fiori, qui rappresenta il mazzo delle numerose virtù che sono nell’anima, che sopra ho chiamate vigna fiorita e pigna di fiori. Questo nardo spande la soavità dei suoi profumi per Dio e per l’anima, per tutto il tempo che l’Amato dimora nell’anima attraverso la sua comunicazione sostanziale.
8. È quindi molto auspicabile che l’anima chieda che questo soffio dello Spirito Santo soffi per il suo giardino e che si diffondano i suoi divini aromi. Essendo questa una cosa tanto necessaria, sorgente di tanto bene e gloria per l’anima, la sposa la desiderò e la chiese nel Cantico dei Cantici con le stesse parole di questa strofa, dicendo: Surge, aquilo, et veni, auster, perfla hortum meum, et fluent aromata illius: Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia per il mio giardino, si effondano i suoi aromi e le sue preziose spezie (Ct 4,16). Tutto questo desidera l’anima, non per il piacere e la gloria che le viene, ma perché sa che di questo si compiace il suo Sposo. Inoltre, tutto questo è preparazione e preannuncio affinché lo Sposo, il Figlio di Dio, venga a dilettarsi in essa. Perciò aggiunge subito: e pascerà l’Amato in mezzo ai fiori.
9. L’anima dà il nome di pasto a queste delizie con cui il Figlio di Dio la nutre in questo periodo: nulla di più appropriato, perché il pasto o nutrimento è cosa che non solo piace, ma anche sostiene. Infatti il Figlio di Dio trova le sue delizie nelle stesse delizie dell’anima; si sostenta in essa, cioè continua a dimorare in essa, come in un luogo profondamente piacevole, perché l’anima si delizia davvero di lui. Ciò è quanto ha voluto dirci egli stesso per bocca di Salomone nel libro dei Proverbi con queste parole: Le mie delizie sono con i figli dell’uomo(Pro 8,31), cioè quando il loro piacere è stare con me, che sono il Figlio di Dio. Occorre qui osservare che l’anima non dice che l’Amato si pascerà dei fiori, ma in mezzo ai fiori, perché lo Sposo si comunica piacevolmente all’anima per mezzo dello splendore delle virtù, come si è detto. Ciò di cui egli si pasce è l’anima stessa trasformata in lui, preparata, abbellita ed esaltata dai fiori delle sue virtù, doti e perfezioni, che sono come il condimento con cui e in mezzo al quale Dio la nutre. Questi fiori, per mezzo dello Spirito che lo precede – ne abbiamo già parlato –, offrono al Figlio di Dio e all’anima sapore e dolcezza. La caratteristica dello Sposo è, infatti, quella di unirsi all’anima nella fragranza di questi fiori. La sposa del Cantico dei Cantici descrive questa situazione dello Sposo con queste parole: Dilectus meus descendit in hortum suum ad areolam aromatum, ut pascatur in hortis, et lilia coligat: Il mio Diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini e a cogliere gigli (Ct 6,2). E subito aggiunge: Il mio Diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli (Ct 6,3), cioè si compiace nella mia anima, che è il suo giardino, tra i gigli delle mie virtù, perfezioni e grazie.