Sezione 3
Entrata ormai è la sposa
nel giardino ameno desiato
e a suo piacer riposa,
il collo reclinato
sopra le dolci braccia dell’Amato.
SPIEGAZIONE
1. L’anima ha già fatto di tutto per cacciare le volpi e fermare la tramontana: disturbi e inconvenienti che le impedivano la gioia perfetta dello stato di matrimonio spirituale. Ha, altresì, invocato e ottenuto il soffio dello Spirito Santo, come ha fatto nelle strofe precedenti, condizione necessaria e adeguata per arrivare alla perfezione di questo stato. Non ci resta ora che trattarne nella presente strofa, in cui a parlare è lo Sposo, che ormai si rivolge all’anima chiamandola sposa e dicendo due cose. La prima è che, dopo essere riuscita vittoriosa su tutti i suoi nemici, l’anima ha raggiunto questo felice stato del matrimonio spirituale, tanto desiderato sia dallo Sposo che da lei. La seconda espone i privilegi di tale stato, di cui gode l’anima in sua compagnia, come quelli di poter riposare a suo piacere e tenere il collo reclinato sopra le amorose braccia dell’Amato, come ora spiegherò. Entrata ormai è la sposa.
2. Per spiegare più chiaramente l’ordine di queste strofe e far comprendere il cammino solitamente percorso dall’anima per arrivare al matrimonio spirituale, lo stato più elevato cui essa possa pervenire e del quale ora, con l’aiuto di Dio, parlerò, si deve osservare che, prima di raggiungerlo, l’anima si è anzitutto esercitata nelle prove e nelle amarezze della mortificazione, nonché nella meditazione, cose di cui ha parlato dall’inizio fino alla strofa in cui dice: Mille grazie spargendo. Poi è passata attraverso le prove e le angustie dell’amore, come ha raccontato nel susseguirsi delle strofe fino a quella che dice: Distoglili, Amato. Successivamente ha raccontato che il Diletto le ha comunicato profonde verità e le ha fatto frequenti visite, grazie alle quali è cresciuta e si è perfezionata nel suo amore. Così, essa si è elevata al di sopra delle cose e di se stessa, essendosi donata a lui in unione d’amore nel fidanzamento spirituale. In questo stato, quasi che fosse già sposata, ha ricevuto dallo Sposo preziosi doni e ricchezze, come ha cantato dalla strofa in cui è avvenuto il fidanzamento divino, che comincia con le parole: Distoglili, Amato, fino alla presente strofa, che inizia con: Entrata ormai è la sposa. L’anima ha esposto le caratteristiche del fidanzamento spirituale, menzionate dallo Sposo, perciò non se ne parlerà nella presente strofa. Non resta, ormai, che parlare del matrimonio spirituale tra l’anima e il Figlio di Dio, suo Sposo. Il matrimonio è uno stato incomparabilmente superiore al fidanzamento spirituale, perché è una trasformazione totale dell’anima nell’Amato. In questa trasformazione entrambe le parti si donano l’una all’altra, in maniera totale, con una certa consumazione dell’unione d’amore, in cui l’anima è resa divina e Dio per partecipazione, per quanto è possibile in questa vita. Penso che questo stato non si realizzi se l’anima non è confermata in grazia di Dio, perché, confermandosi qui la fedeltà dell’anima in Dio, si conferma quella d’entrambe le parti. Ne consegue che questo è lo stato più elevato che si possa raggiungere in questa vita. Come in virtù del matrimonio sulla terra i due sposi formano una sola carne, come dice la sacra Scrittura (Gn 2,24), così, quando si consuma questo matrimonio spirituale tra Dio e l’anima, vi sono due nature nell’unico spirito e amore di Dio. Così , per esempio, quando la luce di una stella o di una candela si unisce e confonde con quella del sole, ciò che brilla non è più la stella o la candela, ma il sole, che contiene in sé unite tutte le altre luci. Di questo stato parla lo Sposo nel presente verso, dicendo: Entrata ormai è la sposa. Ciò vuol dire che ella è stata elevata al di sopra di tutto ciò che è temporale e naturale, al di sopra di tutti gli affetti, maniere o forme di spiritualità. Lasciate da parte e dimenticate tutte le tentazioni, i turbamenti, le pene, le sollecitudini e le preoccupazioni, è trasformata in questo sublime abbraccio. Si commenta perciò il verso seguente: nel giardino ameno desiato.
3. È come se dicesse: si è trasformata nel suo Dio, denominato qui giardino ameno per il delizioso e dolce riposo che l’anima trova in lui. A questo giardino, dove si verifica una trasformazione totale che consiste nella gioia, nelle delizie e nella gloria del matrimonio spirituale, non si giunge senza passare prima attraverso il fidanzamento spirituale e l’amore sincero, abituale tra i fidanzati. Infatti, dopo che l’anima si è mostrata per qualche tempo fidanzata piena d’amore assoluto e soave per il Figlio di Dio, Dio la chiama e la introduce nel giardino fiorito a consumare questo stato felicissimo del matrimonio con lui. Qui si compie una tale unione delle due nature e una tale comunicazione della natura divina alla natura umana che, pur non mutando il loro essere, ognuna sembra Dio. Sebbene nella vita presente questo non possa avvenire perfettamente, tuttavia è superiore a tutto ciò che si possa dire o pensare.
4. Ciò è quanto lo Sposo lascia intendere molto bene nel Cantico dei Cantici, quando invita a questo stato l’anima divenuta ormai sua sposa dicendole: Veni in hortum meum, soror mea, sponsa; messui myrrham meam cum aromatibus meis: Vieni ed entra nel mio giardino, sorella mia, sposa, poiché ho già raccolto la mia mirra e il mio balsamo (Ct 5,1). La chiama sorella e sposa, perché lo era già per l’amore e il dono di sé che le aveva fatto prima di chiamarla a questo stato di matrimonio spirituale. Egli ha già raccolto la sua mirra e il suo balsamo, cioè i frutti ormai maturi prodotti dai fiori e pronti per l’anima. Questi frutti sono le delizie e le magnificenze che lo Sposo possiede in sé e che comunica all’anima in questo stato. Ecco perché egli è per l’anima giardino ameno e desiato. Quello che l’anima desidera in tutte le sue opere è la consumazione e la perfezione di questo stato, scopo che essa persegue insieme a Dio. Ciò spiega perché l’anima non si concede nessun riposo fino a quando non lo raggiunge. In questo stato essa trova un’abbondanza e pienezza di Dio molto più grande, una pace più sicura e stabile e una dolcezza più soave, incomparabilmente più perfetta di quella del fidanzamento spirituale, al sicuro com’è tra le braccia dello Sposo. In quest’anima si verifica ciò che dice san Paolo ai Galati: Vivo autem, iam non ego, vivit vero in me Christus: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20). Vivendo ormai una vita così felice e gloriosa, come è la vita di Dio, consideri ciascuno, se può, quanto piena di dolcezza dev’essere questa vita che l’anima vive, vita in cui, come Dio non può provare alcun dispiacere, così neppure essa lo sente. Al contrario, essa gode di Dio, gusta le sue delizie e la sua gloria nella sua sostanza, trasformata com’è in lui. Per questo il seguito dice: e a suo piacer riposa, il collo reclinato…
5. Qui il collo, come ho detto sopra, significa la forza dell’anima, mediante la quale essa pratica le virtù e vince i vizi. È giusto, perciò, che si riposi dopo tali sforzi e reclini il collo sopra le dolci braccia dell’Amato.
6. Reclinare il collo tra le braccia di Dio è aver già unito la propria forza, o meglio, la propria debolezza, alla forza di Dio, perché le braccia di Dio simboleggiano la sua forza, sulla quale la nostra debolezza, appoggiandosi e lasciandosi trasformare, acquista la forza stessa di Dio. Molto appropriatamente, dunque, questo stato del matrimonio spirituale viene rappresentato dall’abbandono tra le dolci braccia dell’Amato: Dio è ormai la forza e la dolcezza dell’anima; in lui trova la sua protezione, viene posta al riparo da tutti i mali e gusta la soavità di tutti i beni. Per questo nel Cantico dei Cantici, la sposa che desidera pervenire a questo stato dichiara allo Sposo: Quis det te mihi fratrem meum sugentem ubera matris meae, ut inveniam te solum foris, et deosculer te, et iam me nemo despiciat?: Oh, se tu fossi mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi! (Ct 8,1). Il fatto di chiamarlo fratello fa comprendere l’uguaglianza che vige nel fidanzamento d’amore tra i due prima di arrivare a questo stato. Dicendo: allattato al seno di mia madre, vuol significare: inaridisci ed estingui in me gli appetiti e le passioni, cioè i seni e il latte della madre Eva nella nostra carne, che sono di ostacolo al matrimonio. Dopo aver fatto questo, ti possa io trovare fuori, cioè fuori di tutto il creato e di me stessa, nella solitudine e nella nudità di spirito. Una volta pacificati i suddetti appetiti, a tu per tu, ti possa facilmente baciare, cioè possa unire direttamente a te, senza intermediari, la mia natura ormai sola e libera da ogni impurità temporale, naturale e spirituale. Simile unione si compie solo nel matrimonio spirituale, che è il bacio dell’anima a Dio, in cui nessuno la disprezza né oserebbe farlo. Raggiunto questo stato, né il demonio né la carne né il mondo né le passioni la disturbano. Qui si compie quanto si dice ancora nel Cantico dei Cantici: Iam enim hiems transiit, imber abiit et recessit, flores apparuerunt, ecc.: L’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi(Ct 2,11-12).
STROFA 28
All’ombra di quel melo
a me fosti sposata,
qui ti porsi la mano
e fosti riscattata
dove tua madre fu violata.
SPIEGAZIONE
1. Nel sublime stato di matrimonio spirituale, con grande facilità e frequenza lo Sposo rivela all’anima i suoi meravigliosi segreti e le fa conoscere le opere della sua potenza, perché l’amore vero e totale non sa nascondere nulla. Le comunica soprattutto i dolci misteri della sua incarnazione, i mezzi e le vie da lui impiegati per la redenzione dell’umanità, una delle opere più eccelse di Dio e perciò tra le più squisite per l’anima. Questo fa lo Sposo nella presente strofa: con grande soavità d’amore rivela, interiormente, all’anima i suddetti misteri. Così, rivolgendosi all’anima le dice come grazie all’albero della croce essa è diventata sua sposa, perché egli l’ha colmata della sua misericordia, decidendo di morire per essa e di renderla bella. Difatti egli l’ha risanata e l’ha redenta con lo stesso strumento con cui la natura umana era stata guastata, cioè per mezzo dell’albero del paradiso, nella nostra prima madre che è Eva (Gn 3,1-6). Perciò dice: ricorda solo quello dell’incarnazione, come il più importante di tutti. E così, parlando con lei, dice: All’ombra di quel melo.
2. Per melo egli intende l’albero della croce, sul quale il Figlio di Dio ha redento e, di conseguenza, ha sposato la natura umana, quindi ogni anima, donandole sulla croce la sua grazia e i suoi favori, per i meriti della sua passione. E aggiunge: a me fosti sposata, qui ti porsi la mano.
3. Vale a dire: ti ho concesso il mio favore e il mio aiuto, elevandoti dalla tua misera e vile condizione per vivere in mia compagnia ed essere unita a me come sposa. E fosti riscattata dove tua madre fu violata.
4. Come tua madre, cioè la natura umana, fu violata nei tuoi progenitori sotto l’albero, così tu sei stata riscattata sotto l’albero della croce. Se tua madre ai piedi dell’albero ti ha dato la morte, io sotto l’albero della croce ti ho donato la vita. In questo modo Dio le svela a poco a poco le disposizioni e il piano della sua sapienza; le mostra come egli sappia tanto saggiamente e ammirabilmente far nascere il bene dal male e volgere al maggior bene ciò che fu causa del male. Quanto è contenuto in questa strofa corrisponde letteralmente alle parole proferite dallo Sposo alla sposa nel Cantico dei Cantici: Sub arbore malo suscitavi te; ibi corrupta est mater tua, ibi violata est genitrix tua: Sotto il melo ti ho svegliata; là dove tua madre fu corrotta, là dove colei che ti generò fu violata(Ct 8,5 Volg.).
STROFE 29 e 30
O leggerissimi uccelli,
leoni, cervi, daini saltatori,
monti, valli, riviere,
acque, venti, ardori
e delle notti vigili timori:
io, per le soavi lire
e il canto di sirene, vi scongiuro:
cessino le vostre ire
e non battete al muro,
ché la sposa dorma più sicura.
SPIEGAZIONE
1. Lo Sposo prosegue il discorso. In queste due strofe mostra come per la soavità delle lire, simbolo della dolcezza che l’anima gode abitualmente in questo stato, e attraverso il canto delle sirene, figura delle delizie che l’anima prova sempre, mette fine a tutte le agitazioni e passioni; in precedenza, per la verità, le erano di qualche impedimento e disturbo. Essa non poteva godere, in pace, di tale favore a motivo delle divagazioni della sua immaginazione. Lo Sposo scongiura, pertanto, che cessino e, inoltre, riduce a ragione le due potenze naturali, quella irascibile e quella concupiscibile, che prima affliggevano alquanto l’anima. Parimenti, per mezzo di queste lire e di questo canto, egli mostra come, in questo stato, vengono elevate alla loro perfezione, per quanto è possibile in questa vita, le tre potenze dell’anima, cioè l’intelletto, la volontà e la memoria. Oltre a ciò, mostra come le quattro passioni dell’anima, che sono il dolore, la speranza, la gioia e il timore, siano regolate e sottomesse alla ragione mediante la soddisfazione in cui è l’anima e che è rappresentata dalla soavità delle lire e dal canto delle sirene, come dirò in seguito. Dio vuole che cessino tutti questi inconvenienti affinché l’anima possa godere senza interruzione alcuna delle delizie, della pace e della soavità della sua unione con lui. O leggerissimi uccelli.
2. Chiama leggerissimi uccelli le divagazioni dell’immaginazione che, leggere e rapide, volano da una parte all’altra; quando la volontà gode, in una pace profonda, le dolci comunicazioni dell’Amato, esse di solito le creano disgusto e cercano di soffocare la sua gioia con le loro sottili agitazioni. Ma lo Sposo le scongiura per le soavi lire, ecc., di cessare; vale a dire: ora che la dolcezza e il diletto dell’anima sono tanto abbondanti e frequenti che esse non li potranno impedire com’erano solite fare un tempo, quando l’anima non aveva ancora raggiunto tale stato, chiede loro che cessino i voli irrequieti e gli slanci sfrenati. Questo comando vale anche per le altre parti di questa strofa, che ora verranno spiegate: leoni, cervi, daini saltatori.
3. Per leoni intende gli assalti impetuosi della potenza irascibile, perché questa potenza è audace e ardita nei suoi atti, come i leoni. I cervi e i daini saltatori rappresentano l’altra potenza dell’anima, quella concupiscibile, cioè la facoltà dell’appetire, che ha due modi di procedere: il primo è quello tipico dei codardi, l’altro dei temerari. Manifesta codardia quando le circostanze le sono contrarie, e allora si ritira e si chiude pavida in se stessa. In questi effetti è paragonata ai cervi: questi, infatti, hanno una disposizione alla concupiscenza più marcata di molti altri animali, ma sono anche molto codardi e timidi. Manifesta temerarietà quando le cose sono favorevoli, e allora non si intimorisce né si scoraggia, ma si fa ardita e ricerca tali cose con tutto l’ardore dei suoi desideri e affetti. In tale temerarietà è paragonata ai daini, che dimostrano tanta concupiscenza per ciò che desiderano che non solo ci vanno incontro di corsa, ma vi si precipitano saltando; ecco il motivo per cui qui li chiama saltatori.
4. Ora, scongiurare i leoni vuol dire mettere un freno agli impeti e agli assalti dell’ira; scongiurare i cervi significa fortificare la concupiscenza nelle codardie e nelle pusillanimità dov’era prima; scongiurare, infine, i daini saltatori significa soddisfare e smorzare i desideri e gli appetiti che prima procuravano irrequietezza, balzando come daini da un oggetto all’altro per appagare la concupiscenza; questa, ormai, è soddisfatta dalle soavi lire, di cui gode la dolcezza, e dal canto di sirene, nelle cui delizie si sazia. Osserviamo che lo Sposo qui non scongiura l’ira e la concupiscenza, perché queste potenze non possono mai mancare nell’anima; piuttosto, egli si rivolge ai loro atti molesti e disordinati, rappresentati dai leoni, cervi e daini saltatori, che in questo stato non devono assolutamente esistere. Monti, valli, riviere.
5. Con questi tre termini vengono indicati gli atti difettosi e disordinati delle tre potenze dell’anima, cioè memoria, intelletto e volontà. Gli atti sono disordinati e difettosi quando sono troppo alti o troppo bassi e deboli, o quando, pur senza cadere negli eccessi, inclinano o verso l’uno o verso l’altro. I monti, che sono molto alti, simboleggiano gli atti imperfetti per eccesso. Le valli, che sono basse, rappresentano gli atti di queste tre potenze quando non raggiungono la misura loro conveniente. Le riviere, che non sono né alte né basse, e non essendo pianeggianti partecipano un po’ d’entrambi gli eccessi, significano gli atti delle potenze quando eccedono o non raggiungono affatto la linea della giusta misura. Questi atti, pur non essendo estremamente disordinati – il che costituirebbe peccato mortale –, tuttavia lo sono in una certa misura: a volte sono peccati veniali o imperfezioni, per quanto piccole, dell’intelletto, della memoria e della volontà. Ora, lo Sposo scongiura che tutti questi atti, che non stanno nella giusta misura, cessino per le soavi lire e il canto di cui si è parlato sopra. In realtà, le lire e il canto mantengono le tre potenze dell’anima così ben accordate e a tal punto giusto che esse agiscono con tutta la perfezione che loro compete: non solo non cadono in eccessi, ma neppure li rasentano. Si commentano gli altri versi: acque, venti, ardori e delle notti vigili timori.
6. Questi quattro termini designano gli affetti delle quattro passioni, che sono il dolore, la speranza, la gioia e il timore. Le acque indicano le inquietudini del dolore che affliggono l’anima e penetrano in essa come l’acqua. Per questo Davide, rivolgendosi a Dio, dice a tale proposito: Salvum me fac, Deus, quoniam intraverunt aquae usque ad animam meam: Salvami, o Dio, le acque sono penetrate fin nell’anima mia(Sal 68,2 Volg.). I venti rappresentano gli affetti della speranza, perché, come il vento, volano verso l’oggetto assente, che bramano e sperano. A questo riguardo dice ancora Davide: Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua desiderabam, come a dire: Apro anelante la bocca e sospiro, perché spero e desidero i tuoi comandamenti (Sal 118,131). Gli ardori contraddistinguono gli affetti della passione della gioia, che infiammano il cuore come il fuoco. Davide afferma a questo proposito: Concaluit cor meum intra me, et in meditatione mea exardescet ignis: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco (Sal 38,4), vale a dire: nella mia meditazione si accenderà la gioia. I vigili timori delle notti sono gli affetti dell’altra passione, il timore. Abitualmente sono molto vivi nelle persone spirituali non ancora giunte a questo stato di matrimonio spirituale, di cui sto parlando. Talvolta essi provengono da Dio, nel momento in cui vuole concedere loro alcuni favori, come ho detto sopra: di solito lo spirito è in preda al timore e alla paura, mentre la carne e i sensi sono turbati, perché la loro natura non è ancora fortificata, perfezionata né tanto meno abituata a simili grazie. Altre volte questi timori vengono anche da parte del demonio: quando l’anima è chiamata da Dio a raccogliersi in lui e a saggiare la sua dolcezza, il demonio è talmente invidioso e dispiaciuto del bene e della pace dell’anima che cerca d’insinuare in lei orrore e timore per impedire che ne goda, anzi a volte arriva quasi a minacciarla nella sua parte spirituale; quando vede che non può penetrare nell’intimo dell’anima, perché essa è tutta raccolta e unita a Dio, cerca quanto meno di attaccarla dall’esterno, nella sua parte sensitiva; e così insinua distrazioni e divagazioni, provoca angosce, dolori e orrori nei sensi, nel tentativo di turbare la sposa nel suo talamo. Tali timori sono detti delle notti perché vengono dal demonio e perché con essi il demonio briga per diffondere tenebre nell’anima, per oscurare la luce divina di cui gode. Chiama vigili questi timori, perché loro scopo è tenere desta l’anima e sottrarla al suo dolce sogno interiore; d’altra parte il demonio, a causa di tali timori, è sempre all’erta per istillarli nell’anima. Detti timori entrano passivamente, da parte di Dio o del demonio, nelle persone già spirituali. Non parlo qui di altri timori temporali o naturali, perché non è tipico delle persone spirituali il soffrirne; è tipico, invece, provare i suddetti timori spirituali.
7. L’Amato, dunque, scongiura le quattro forme di affetti delle quattro passioni dell’anima perché cessino e si acquietino. Infatti egli dona alla sposa, giunta a questo stato, abbondanza di beni, forza e felicità; grazie alle soavi lire, le fa gustare la sua dolcezza, e grazie al canto di sirene la colma delle sue delizie. In questo modo le passioni non solo non regnano nell’anima, ma non sono nemmeno in grado di arrecarle il minimo dispiacere. In questo stato, infatti, la grandezza e la stabilità dell’anima sono talmente possenti che, se prima essa veniva raggiunta dalle acque del dolore per un motivo qualsiasi, come anche per i peccati suoi o per quelli degli altri – cosa che spesso fa soffrire di più le persone spirituali –, ora, anche se valuta la gravità del peccato, non ne ricava sensazioni dolorose. Essa non ha neppure la compassione, cioè il sentimento che questa virtù produce, sebbene ne possegga le opere e la perfezione. L’anima, a questo punto, non presenta più la debolezza che manifestava prima nella pratica delle virtù; le rimane soltanto la loro forza, costanza e perfezione. L’anima si comporta come gli angeli: questi si rendono perfettamente conto di tutto ciò che causa dolore, senza sentire mai dolore; praticano le opere di misericordia, senza provare il sentimento di compassione. Così è delle anime elevate a questa trasformazione d’amore. A volte, tuttavia, e in alcune circostanze, Dio le lascia in questa loro sensibilità e permette che soffrano, perché possano acquistare meriti e crescere nell’amore, o per altri motivi, come fece con la Vergine, sua Madre, con san Paolo; ma lo stato presente di per sé non comporta tale sentimento.
8. I desideri della speranza non procurano all’anima più alcuna afflizione, perché, soddisfatta com’è dell’unione con Dio, per quanto è possibile in questa vita, nulla di terreno le resta da sperare, come anche nulla di spirituale le resta da desiderare. In realtà, si vede e si sente colma delle ricchezze di Dio. Così, sia che viva sia che muoia, è conformata alla volontà di Dio e in perfetta armonia con essa. In tal modo il desiderio di vedere Dio è privo di sofferenza. Anche gli affetti della gioia, che di solito suscitavano nell’anima sentimenti instabili, ora le appaiono né troppo esigui né eccessivi. È tale la gioia che prova, infatti, da rassomigliare al mare, che non diminuisce a causa dei fiumi che escono né cresce a causa di quelli che entrano. Tale è l’anima, divenuta quella sorgente di cui parla Cristo per bocca di san Giovanni: La sua acqua zampilla per la vita eterna(Gv 4,14). Infine, i vigili timori delle notti non raggiungono l’anima, perché è già così illuminata e forte e ben ancorata in Dio che i demoni non possono offuscarla con le loro tenebre, né spaventarla con i loro terrori, né svegliarla con i loro assalti. Nulla può avvicinarla né disturbarla, essendo ormai entrata, come ho detto, nel giardino desiato, dove gode ogni pace, gusta ogni soavità e prova piacere in ogni diletto, per quanto gliene consente la condizione del presente stato di vita. A quest’anima possiamo riferire ciò che dice il Saggio: Secura mens quasi iuge convivium: Per un cuore felice è sempre festa (Pro 15,15); come in un banchetto si gustano il sapore di tutti i cibi e la soavità di tutte le musiche, così l’anima, in questa festa conviviale che tiene sempre sul petto dell’Amato, gode ogni diletto e gusta ogni soavità.
9. Chi leggerà queste righe non pensi che la nostra esposizione sia stata lunga, perché, in realtà, se dovessi spiegare ciò che l’anima prova una volta che è pervenuta a questo stato felice, mi mancherebbero le parole e il tempo e non ne direi che una minima parte. Se l’anima, infatti, riesce a conquistare la pace di Dio, che sorpassa ogni sentire (Fil 4,7), resterà muta, incapace di parlare. Si commenta il verso della seconda strofa: io, per le soavi lire e il canto di sirene, vi scongiuro.
10. Come ho già detto, per soavi lire qui lo Sposo intende la dolcezza che egli stesso comunica all’anima in questo stato. Come l’armonia delle lire riempie l’anima di dolcezza e la ricrea, talmente la rapisce e la tiene in sospeso da farle dimenticare ogni dispiacere e sofferenza, allo stesso modo questa soavità tiene talmente raccolta l’anima in se stessa che nessuna pena la può toccare. Per questo lo Sposo scongiura tutte le potenze e le passioni che cessino di molestare l’anima a motivo della soavità che le comunica. Riguardo al canto di sirene, rappresenta il diletto che abitualmente l’anima possiede e grazie al quale è completamente liberata da tutti i nemici e i turbamenti che la molestavano. Sono tutti rievocati nel verso seguente: cessino le vostre ire.
11. Lo Sposo chiama ire tutti i turbamenti e le molestie degli affetti e delle attività disordinate, di cui si è parlato sopra. Come l’ira è un impulso che turba la pace, facendola uscire dai limiti della ragione, quando il suo atto è vizioso, così tutti i suddetti affetti e operazioni con i loro moti vanno oltre i confini della pace e della tranquillità dell’anima, quando vi regnano. Per questo dice: e non battete al muro.
12. Per muro intende il baluardo della pace, delle virtù e delle perfezioni possedute dall’anima e da cui essa è protetta: è il muro e la difesa del giardino del suo Amato. Per questo lo Sposo del Cantico dei Cantici la chiama: Hortus conclusus soror mea: Giardino chiuso tu sei, sorella mia (Ct 4,12). Esorta quindi a non toccare questo muro, ché la sposa dorma più sicura.
13. Cioè: perché assapori meglio la quiete e la soavità godute nel giardino dove è entrata , il collo reclinato sopra le dolci braccia dell’Amato. Per l’anima, così, non vi sono più porte chiuse.
STROFA 31
O ninfe di Giudea!
Intanto che tra i fiori e nei roseti
l’ambra i suoi aromi emana,
nei sobborghi restate,
toccar le nostre soglie non vogliate.
SPIEGAZIONE
1. È la sposa che parla in questa strofa. Vedendo la sua parte superiore e spirituale arricchita di doni tanto preziosi e colmata di delizie così benefiche da parte del suo Amato, desidera conservare, in modo sicuro e permanente, quel possesso che lo Sposo le ha concesso, come si è visto nelle strofe precedenti. Ma la sua parte inferiore, ossia la sensualità, potrebbe impedire questo favore divino, e di fatto ostacola e disturba il possesso di un bene così grande. Per questo motivo la sposa chiede alle potenze e ai sensi della parte inferiore che si acquietino e cessino le loro operazioni e gli stimoli; chiede, altresì, che non vadano oltre i confini del loro ambito, quello della sensitività, turbando e gettando inquietudine nella parte superiore e spirituale dell’anima, in modo da non impedirle, neppure con il più piccolo moto, il bene e la soavità di cui gode. Difatti, se i moti della parte sensitiva e le potenze entrano in azione, mentre lo spirito gode, quanto più sono attivi e vivaci tanto più lo molestano e lo turbano. Dice, dunque, così: O ninfe di Giudea!
2. Chiama Giudea la parte inferiore dell’anima, quella sensitiva. La chiama Giudea perché è debole, carnale e di per sé cieca, come il popolo ebraico. Chiama ninfe tutte le immaginazioni, le fantasie, i moti e gli affetti di questa parte inferiore. Le chiama tutte ninfe perché come le ninfe con il loro affetto e le loro grazie attirano a sé gli amanti, così le operazioni e i moti della sensualità cercano in maniera piacevole e insistente di attirare a sé la volontà della parte razionale, per distoglierla dalle realtà interiori verso gli oggetti esteriori che esse ricercano e desiderano; nello stesso tempo sommuovono anche l’intelletto, attirandolo perché si sposi e si unisca a loro agendo in modo vile, nel tentativo di conformare e unire la parte razionale con quella sensitiva. L’anima, dunque, dice: oh!, voi, operazioni e moti sensuali, intanto che tra i fiori e nei roseti l’ambra i suoi aromi emana.
3. I fiori, come ho detto, sono le virtù dell’anima; i roseti le sue potenze: intelletto, memoria e volontà, che racchiudono in sé e coltivano rose e fiori di pensieri divini e atti d’amore e di virtù; l’ambra rappresenta qui lo Spirito divino che dimora nell’anima. Quest’ambra divina emana aromi tra i fiori e nei roseti, quando si spande e si comunica, in modo dolcissimo, nelle facoltà e nelle virtù dell’anima, donandole attraverso di esse profumi di soavità divina. Ora, mentre questo Spirito divino colma la mia anima di soavità spirituale, nei sobborghi restate.
4. Nei sobborghi della Giudea, che, come ho detto, è la parte inferiore o sensitiva dell’anima; e i suoi sobborghi sono i sensi interni, come la fantasia, l’immaginazione e la memoria, ove s’imprimono e si conservano le forme, le immagini e i fantasmi degli oggetti. Queste forme sono quelle che qui chiama ninfe. Esse penetrano nei sobborghi dei sensi interni attraverso le porte dei sensi esterni, cioè l’udito, la vista, l’olfatto, il gusto e il tatto, così che possiamo chiamare sobborghi tutte le facoltà e i sensi della parte sensitiva; si chiamano sobborghi perché sono i quartieri situati fuori delle mura della città. Difatti ciò che viene chiamato città nell’anima è la sua parte più interna, cioè quella razionale, che ha la capacità di comunicare con Dio e le cui operazioni sono contrarie a quelle della sensualità. Vi è, però, un collegamento naturale tra gli abitanti di questi sobborghi della parte sensitiva, le ninfe di cui ho parlato, in modo che quanto si fa in questa parte ordinariamente si avverte in quella più interna, che è la razionale; di conseguenza, ne richiama l’attenzione e la distrae nel suo rapporto spirituale con Dio. Per questo l’anima chiede loro di restare nei sobborghi, cioè di starsene quietamente nei loro sensi interni ed esterni. Toccar le nostre soglie non vogliate.
5. Cioè non toccate la parte superiore nemmeno con moti primi. I moti primi dell’anima, infatti, sono la porta d’ingresso e la soglia attraverso cui vi si penetra dentro, e quando questi primi moti arrivano fino alla ragione, hanno già varcato la soglia. Ma se questi moti primi restano ciò che sono, allora toccano solo la soglia o bussano alla porta. Ciò avviene quando la parte sensitiva attacca la ragione con qualche atto disordinato della sensualità. Ora l’anima desidera che non la tocchino non solo questi moti, ma neanche tutte le considerazioni che non hanno alcun rapporto con la quiete e la felicità di cui essa gode. Così, dunque, questa parte sensitiva con tutte le sue potenze, le sue forze e le sue debolezze è ormai sottomessa allo spirito quando l’anima è in questo stato. Lo spirito ormai conduce una vita di beatitudine simile a quello dello stato d’innocenza, quando tutta l’armonia e l’abilità della parte sensitiva dell’uomo serviva ad accrescere la sua felicità e gli era d’aiuto per meglio conoscere e amare Dio, in una pace e un accordo perfetto con la sua parte superiore. Beata l’anima che è giunta a questo stato! Chi è costui? Noi lo proclameremo beato perché ha compiuto meraviglie! (Sir 31,9).
6. Questa strofa è stata inserita qui per mostrare la pace sicura e serena che gode l’anima una volta pervenuta a questo stato così sublime. Non si deve dunque pensare che, se l’anima manifesta qui il desiderio che queste ninfe smettano di agitarla, è perché essa è turbata in questo stato. Infatti tutte queste agitazioni sono ormai acquietate, come ho spiegato sopra. Questo desiderio riguarda più i proficienti che i perfetti, sui quali le passioni e i moti non hanno quasi alcun potere.
STROFA 32
Nasconditi, Diletto,
il tuo viso volgi alle montagne,
non cercar di parlare,
ma guarda le compagne
di lei che va per isole lontane.
SPIEGAZIONE
1. Nelle strofe precedenti lo Sposo e la sposa hanno sottomesso e ridotto al silenzio le passioni e le potenze dell’anima sia sensitive che spirituali che potevano disturbare l’anima. Nella presente strofa, la sposa si dedica al godimento dell’Amato nel raccoglimento profondo della sua anima, dove lo Sposo unito a lei per amore la colma di delizie in maniera del tutto nascosta. Ciò che avviene allora in essa, in questo raccoglimento del matrimonio con il suo Amato è talmente profondo e pieno di soavità che essa non sa né vuole parlarne. Sono queste le esperienze di cui parla Isaia: Secretum meum mihi, secretum meum mihi: Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me (Is 24,16 Volg.). Così essa le possiede nel segreto ed è nel segreto che le comprende, nel segreto ne gode, ed è felice che tutto questo avvenga nel segreto; il suo desiderio è che tutto avvenga nel nascondimento sublime e lontano da qualsiasi comunicazione esteriore. In questo è simile al mercante di perle, o meglio, all’uomo che, trovato un tesoro nascosto nel campo, lo nasconde di nuovo con gioia e poi va ad acquistare il campo (Mt 13,44-46). La stessa cosa chiede l’anima allo Sposo, in questa strofa, esprimendogli quattro desideri. Il primo, che voglia comunicarsi a lei nelle sue massime profondità. Il secondo, che investa e informi le sue facoltà con la gloria e l’eccellenza della sua divinità. Il terzo, che questi favori le siano accordati in forma tanto eccelsa che essa non abbia né il desiderio né la facoltà di parlarne, e non siano raggiungibili dalla sua parte esteriore e sensibile. Il quarto, che lo Sposo s’innamori alla vista delle numerose virtù che ha posto in lei, che si dirige e si eleva a Dio per mezzo di conoscenze molto alte e sublimi della divinità e per mezzo di trasporti d’amore molto più insoliti e straordinari di quelli che si hanno abitualmente. Nasconditi, Diletto.
2. Intende dire: amato Sposo mio, raccogliti nel più intimo della mia anima; comunicati a lei segretamente; manifestale le tue meraviglie nascoste, che nessun occhio mortale ha mai contemplato! Il tuo viso volgi alle montagne.
3. Il volto di Dio è la sua divinità e le montagne rappresentano le potenze dell’anima: memoria, intelletto e volontà. Ciò vuol dire: rivesti con la tua divinità il mio intelletto, dandogli l’intelligenza delle verità divine; rivestine anche la mia volontà, donandole e comunicandole l’amore divino; rivestine, infine, la mia memoria, offrendole il possesso della gloria divina. In questo modo, l’anima chiede tutto ciò che può chiedere, perché non si contenta più di una conoscenza e di una comunicazione di Dio simili a quelle concesse a Mosè quando lo vide di spalle (Es 33,23), il che significa conoscere Dio attraverso i suoi effetti e le sue opere. Ma l’anima vuole vedere il volto di Dio, cioè possedere una conoscenza essenziale della divinità senza intermediari, per un certo contatto con la divinità stessa. Questa è cosa del tutto estranea ai sensi e agli accidenti, trattandosi di un contatto tra la sostanza pura dell’anima e quella della divinità. Per questo l’anima aggiunge immediatamente: non cercar di parlare.
4. Ciò vuol dire: non cercar di parlare come prima, quando le comunicazioni che mi concedevi erano tali da passare attraverso i sensi esterni, trattandosi di cose alla loro portata; non erano, infatti, così elevate e profonde che non potessero riceverle. Ora invece ti chiedo che tali comunicazioni siano talmente elevate, sostanziali e intime da essere ignote ai sensi, e che questi restino nell’impossibilità di percepirle (la sostanza spirituale, infatti, non può essere comunicata ai sensi, quindi tutto ciò che è comunicato ai sensi non è essenzialmente Dio). A questo punto l’anima, desiderando questa comunicazione di Dio così essenziale che trascende i sensi, chiede allo Sposo che avvenga in modo nascosto ai sensi, cioè che lo Sposo non si comunichi in modo così vile ed esteriore che i sensi lo possano sapere ed esprimere a parole. Ma guarda le compagne.
5. Ho già detto che il guardare di Dio è amare. Quelle che l’anima chiama compagne sono la moltitudine delle virtù, dei doni, delle perfezioni e delle altre sue ricchezze spirituali. Sembra, dunque, che l’anima dica: volgiti piuttosto, o mio Diletto, verso l’intimo della mia anima; guarda con amore le ricchezze che hai dato come compagne all’anima mia, perché, innamorato di lei per mezzo loro, tu ti nasconda e ti stabilisca in essa. È vero che tali virtù sono tue, ma dal momento che tu le hai donate alla mia anima sono anche di lei che va per isole lontane.
6. Sono cioè della mia anima, che sale a te per mezzo di conoscenze straordinarie, per modi e vie inusitate ed estranee a tutti i sensi e alla maniera ordinaria di conoscere. La sposa sembra, dunque, dire: poiché la mia anima si eleva a te attraverso conoscenze inusitate ed estranee ai sensi, degnati di comunicarti anche a me in modo così intimo e sublime da essere estraneo a tutti loro.
STROFA 33
La bianca colombella
all’arca con il ramo è ritornata
e già la tortorella
il suo compagno amato
sopra le verdi rive ha ritrovato.
SPIEGAZIONE
1. In questa strofa è lo Sposo che parla. Canta la purezza dell’anima in questo stato, le ricchezze e la ricompensa ottenuta per esservisi disposta e per aver sofferto al fine di giungere fino a lui. Canta anche la felice sorte che ha avuto trovando il suo Sposo in quest’unione. Lascia intendere che i suoi desideri si sono compiuti, dal momento che in lui l’anima possiede le delizie e il riposo, dopo aver affrontato le sofferenze di questa vita e del tempo passato. Ecco quanto dice: La bianca colombella.
2. Chiama l’anima bianca colombella per il candore e la limpidezza che ha ricevuto dalla grazia trovata in Dio. E aggiunge: all’arca con il ramo è ritornata.
3. Qui lo Sposo paragona l’anima alla colomba dell’arca di Noè: l’andare e il venire della colomba all’arca rappresenta ciò che è accaduto all’anima in questa situazione. Come la colomba che uscì dall’arca di Noè, vi tornò con un ramoscello d’olivo nel becco, come segno della misericordia di Dio per aver fatto cessare le acque che avevano sommerso la terra (Gn 8.8-11), allo stesso modo l’anima, uscita dall’arca dell’onnipotenza di Dio al momento in cui fu creata, dopo aver attraversato le acque del diluvio dei suoi peccati e delle sue imperfezioni, delle pene e delle sofferenze di questa vita, ora ritorna all’arca del petto del suo Creatore con il ramoscello d’olivo, che è la clemenza e la misericordia che Dio le ha usato. Infatti l’ha condotta fino a questo sublime stato di perfezione avendo fatto ritirare dalla terra della sua anima le acque dei peccati, concedendole vittoria contro gli assalti e le forze dei nemici che le avevano impedito di ottenere questo favore. Ecco perché il ramo significa la vittoria riportata sui nemici e la ricompensa per i suoi meriti. La colomba non solo ora torna all’arca del suo Dio, bianca e limpida come ne era uscita quando egli la creò, ma in più porta il ramo del premio e della pace ottenuta con la vittoria. E già la tortorella / il suo compagno amato / sopra le verdi rive ha ritrovato.
4. Qui lo Sposo chiama l’anima con un altro nome, quello di tortorella, perché nella ricerca dello Sposo somiglia alla tortorella quando non trova il compagno desiderato. Si può comprendere meglio questo paragone ricordando quanto si dice della tortora: finché non trova il suo compagno, non si posa mai su un ramo verde, non beve acqua chiara o fresca, non si ripara all’ombra, né si unisce ad altri uccelli. Ma una volta trovato il compagno col quale unirsi, torna a gustare tutte queste cose. Queste stesse caratteristiche si riscontrano nell’anima: prima di giungere all’unione spirituale con il suo Amato, deve rinunciare a ogni piacere, cioè non posarsi su alcun ramo verde; deve, altresì, rinunciare a ogni onore, gloria e gioia di questo mondo, rappresentati dall’acqua chiara e fresca; infine non deve appoggiarsi su nessuna soddisfazione e favore di questo mondo, simboleggiati dall’ombra ristoratrice, né voler riposare in niente, ma gemere nell’isolamento riguardo a tutte le cose di quaggiù fino a trovare il suo Sposo.
5. Poiché l’anima, prima di giungere a questo sublime stato, andò in cerca del suo Amato come la tortorella, non trovando né volendo cercare consolazione né conforto se non in lui, lo Sposo stesso canta la fine delle sue prove e il compimento dei suoi desideri, dicendo che la tortorella / il suo compagno amato / sopra le verdi rive ha ritrovato. Ciò significa che ormai l’anima sposa si appoggia su un ramo verde, godendo del suo Amato; ormai beve l’acqua limpida dell’altissima contemplazione e della sapienza di Dio, acqua fresca, perché è il sollievo che trova in lui; si rinfranca all’ombra della sua protezione e del suo favore, che aveva tanto sospirato, dove è colmata di consolazioni, nutrita e ristorata soavemente e divinamente, come essa stessa dice nel Cantico dei Cantici: Sub umbra illius, quem desideraveram sedi, et fructus eius dulcis gutturi meo: Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato (Ct 2,3).
STROFA 34
In solitudine vivea,
in luogo solitario ha posto il nido,
sola così la guida
da solo il suo Amico,
d’amor in solitudine ferito.
SPIEGAZIONE
1. Lo Sposo prosegue lasciando capire la contentezza che prova vedendo la solitudine in cui si trovava l’anima prima di giungere a quest’unione, nonché la solitudine in cui è attualmente dinanzi alle fatiche, alle prove e alle difficoltà, avendo essa stabilito nel suo Amato una dimora silenziosa e dolce, da cui sono escluse tutte le creature e le molestie che ne derivano. Lo Sposo, inoltre, mostra la sua gioia per il fatto che questa solitudine è la disposizione in cui l’anima si è posta per lasciarsi veramente guidare e muovere da lui. Questo non poteva accadere prima, perché essa non aveva ancora posto il suo nido nella solitudine, cioè non era ancora abituata a godere in modo perfetto della solitudine né ad assaporarne la quiete. Ormai è condotta a tale solitudine, in essa è mossa e orientata verso le cose soprannaturali dallo Spirito di Dio. Dichiara che non solo il Signore la guida in questa solitudine, ma che è solo lui a dirigerla comunicandosi a lei senza mediazioni di angeli o di uomini, di figure o di rappresentazioni. Egli è innamorato dell’anima come essa di lui. Egli è ferito dall’amore che lei nutre per lui in questa solitudine, ferito anche da quella libertà di spirito che le procura questa solitudine, che egli ama tantissimo. E pronuncia il verso: In solitudine vivea.
2. La nostra tortorella, ossia l’anima, viveva in solitudine prima di trovare l’Amato in questo stato d’unione; per l’anima che desidera Dio, nessun’altra compagnia è di conforto; anzi, finché non lo trova, tutto le procura una solitudine più profonda. In luogo solitario ha posto il nido.
3. La solitudine, di cui l’anima viveva prima, consisteva nel volersi privare, per amore dello Sposo, di tutti i beni di questo mondo – come ho riferito sopra riguardo alla tortorella – lavorando per la sua perfezione e conseguendo una solitudine totale. Tale solitudine conduce all’unione del Verbo e, di conseguenza, a colui che è sollievo e riposo per eccellenza, qui significati dal nido di cui parla, simbolo di riposo e quiete. Lo Sposo sembra dunque dire: la solitudine in cui l’anima viveva prima, e dove si esercitava in prove e tormenti perché non era ancora perfetta, ora è suo riposo e sollievo perché l’ha acquistata pienamente in Dio. Tale è il senso spirituale di quanto afferma Davide: Etenim passer invenit sibi domum, et turtur nidum, ubi reponat pullos suos: Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli (Sal 83,4), cioè l’anima stabilisce la sua dimora in Dio, che soddisfa tutte le sue aspirazioni e le sue potenze. Sola così la guida.
4. Ecco quanto lo Sposo vuol dire qui: in questa solitudine in cui l’anima sta sola con Dio, distaccata da tutte le cose create, egli la guida, la muove e innalza alle realtà celesti. Eleva alle conoscenze divine il suo intelletto, che è ormai nella solitudine e separato da tutte le altre conoscenze contrarie ed estranee. Muove, senza costrizioni, la sua volontà verso l’amore di Dio, perché essa ormai è nella solitudine e libera da altri affetti. Riempie, infine, la sua memoria di conoscenze divine, perché anch’essa è nella solitudine e priva di altre immaginazioni e rappresentazioni. Appena l’anima libera le sue potenze e le svuota di tutti i valori terreni e di ogni attaccamento alle cose celesti, lasciandole nella più completa solitudine, immediatamente Dio le riempie di ciò che è invisibile e celeste. A questo punto è Dio a guidare l’anima in questa solitudine. È esattamente quanto afferma san Paolo a proposito dei perfetti: Qui spiritu Dei aguntur, ecc.: Quelli che sono mossi dallo Spirito di Dio…(Rm 8,14). Ciò equivale a dire: guida in solitudine l’anima da solo il suo Amico.
5. In altri termini, Dio non soltanto guida l’anima nella sua solitudine, ma è lui stesso, da solo, ad agire in essa, senza mediazione alcuna. Questa è la caratteristica dell’unione dell’anima con Dio nel matrimonio spirituale: Dio agisce in lei e le si comunica da solo, senza l’aiuto degli angeli come precedentemente e senza passare per le facoltà naturali. I sensi esterni e interni, tutte le creature e la stessa anima servono molto poco per disporre a ricevere queste meravigliose grazie soprannaturali che Dio accorda in questo stato. Questi favori, infatti, non dipendono dall’abilità umana, da qualche attività naturale o dagli sforzi dell’anima. Dio solo li attua nell’anima. E agisce così perché la trova nella solitudine e quindi non le vuole concedere altra compagnia che se stesso, né permetterle che si fidi se non di lui solo. Dal momento che l’anima ha lasciato tutto ed è passata oltre le mediazioni, elevandosi al di sopra di tutto per arrivare a Dio, è altresì opportuno che lo stesso Dio sia la sua guida e il mezzo per raggiungerlo. Una volta che l’anima vive nella solitudine da ogni cosa e si è elevata al di sopra di tutto il creato, niente più le giova né le serve per salire ancora, se non lo stesso Verbo Sposo. Questi è talmente innamorato di lei da voler essere il solo a colmarla di questi favori. Ecco perché aggiunge subito: d’amor in solitudine ferito.
6. Infatti, poiché l’anima è restata sola, distaccata da tutto, per amore dello Sposo, questi s’innamora perdutamente di lei in detta solitudine, proprio come lei s’innamorò di lui nella solitudine al punto che rimase ferita d’amore. E così lo Sposo non vuole lasciare sola la sposa, ma, ugualmente ferito dall’amore che nella solitudine ella nutre per lui, egli solo la guida attirandola a sé e adempiendo i suoi desideri. Non l’avrebbe trattata così se non l’avesse incontrata nella solitudine. Al riguardo lo stesso Sposo dice dell’anima per bocca del profeta Osea: Ducam illam in solitudinem, et loquar ad cor eius: La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore (Os 2,16; Volg, 2,14). Quando dice: Parlerò al suo cuore, promette che si donerà all’anima, perché parlare al cuore di una persona significa accontentare il suo cuore, che si accontenta solo di Dio.
STROFA 35
Orsù, godiam l’un l’altro, Amato,
a contemplarci in tua beltade andiam
sul monte e la collina
dove pura sorgente d’acqua scorre,
dove è più folto dentro penetriam.
SPIEGAZIONE
1. Ora che l’unione perfetta tra l’anima e Dio è compiuta, l’anima vuole dedicarsi all’amore ed esercitarsi in tutto ciò che è proprio dell’amore. È, dunque, l’anima che parla in questa strofa con lo Sposo, chiedendogli tre cose che sono proprie dell’amore. La prima di godere dell’amore e di assaporarne la dolcezza, come dichiara nel verso: godiam l’un l’altro, Amato. La seconda di diventare simile all’Amato, come glielo manifesta quando dice: a contemplarci in tua beltade andiam. E la terza, di conoscere le ricchezze e scrutare i segreti dell’Amato, come mostra quando dice: dove è più folto dentro penetriam. Si commenta il verso: Orsù, godiam l’un l’altro, Amato.
2. Cioè nella comunicazione delle dolcezze dell’amore, non solo in quelle che già possediamo abitualmente in virtù dell’unione, ma anche in quelle che provengono dagli atti d’un amore effettivo e attuale, sia interiormente quando la volontà produce atti d’amore, sia esteriormente quando si compiono azioni che riguardano la gloria dell’Amato. Come si è detto, questa infatti è la caratteristica dell’amore: dove dimora, ivi cerca sempre di gustare le sue gioie e dolcezze, che consistono nell’amare, interiormente ed esteriormente. L’anima agisce in questo modo per rendersi più simile all’Amato. E aggiunge subito: a contemplarci in tua beltade andiam.
3. Che significa: facciamo in modo che per mezzo di questo esercizio d’amore arriviamo fino a contemplarci nella tua bellezza; cioè che siamo somiglianti per la bellezza, e la tua bellezza sia tale che, guardandoci l’un l’altro, ognuno somigli a te nella tua bellezza e si veda nella tua bellezza; ciò avverrà trasformando me nella tua bellezza. In questo modo, io vedrò te nella tua bellezza e tu vedrai me nella tua bellezza; tu ti vedrai nella mia bellezza e io mi vedrò in te nella tua bellezza; e così io sembrerò te nella tua bellezza e tu sembrerai me nella tua bellezza, e la mia bellezza sarà la tua bellezza e la tua bellezza la mia bellezza; e io sarò te nella tua bellezza e tu sarai me nella tua bellezza, perché la tua stessa bellezza sarà la mia bellezza. Questa è l’adozione dei figli di Dio, i quali in verità diranno a Dio ciò che lo stesso Figlio dichiara, in san Giovanni, all’eterno Padre: Omnia mea tua sunt, et tua mea sunt: Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie (Gv 17,10). Egli lo dice essenzialmente, in quanto Figlio naturale del Padre, noi per partecipazione, in quanto figli adottivi. Il Figlio non ha pronunciato queste parole soltanto per sé, che è il capo, ma per tutto il suo corpo mistico, che è la Chiesa. Sul monte e la collina.
4. Si tratta della conoscenza mattutina, così chiamata dai teologi, che è conoscenza nel Verbo divino, qui rappresentata dal monte, perché il Verbo è l’altissima sapienza essenziale di Dio; e si tratta della conoscenza vespertina di Dio, che è la sapienza di Dio riversata nelle sue creature, nelle sue opere e nella sua straordinaria provvidenza, e che è qui rappresentata dalla collina, la quale è più bassa del monte. Quando l’anima, dunque, dice allo Sposo: a contemplarci in tua beltade andiam sul monte, chiede di essere resa simile e conforme alla bellezza della sapienza divina, che, come ho detto, è il Figlio di Dio. E aggiungendo la collina, intende chiedergli che le sveli anche la sapienza e i misteri di Dio che brillano nelle creature e nelle opere sue; anche da questa bellezza l’anima desidera essere illuminata. L’anima non può vedersi nella bellezza di Dio se non trasformandosi nella sapienza di Dio, in cui sa di possedere le cose celesti e quelle terrene. Per questo desidera andare al monte e alla collina, dove pura sorgente d’acqua scorre.
5. Intende dire: dove riceve la conoscenza e la sapienza di Dio, che qui chiama acqua pura per l’intelletto, conoscenza limpida e spoglia di tutto ciò che è accidentale e immaginario, priva delle tenebre dell’ignoranza. L’anima nutre sempre questo desiderio di comprendere chiaramente e in tutta la loro purezza le verità divine. Quanto più ama, tanto più desidera addentrarsi in esse. Per questo chiede la terza grazia, in questi termini: dove è più folto dentro penetriam.
6. Penetriamo nel folto delle tue opere meravigliose e dei tuoi profondi giudizi! La loro moltitudine è tanto grande e così varia da potersi chiamare folto. Ivi si può scoprire una sapienza traboccante e così ricca di misteri che non solo possiamo chiamarla folta, ma anche pingue e feconda, come dice Davide: Mons Dei, mons pinguis, mons coagulatus: Il monte di Dio è un monte pingue e fecondo (Sal 67,16 Volg.). Questa profondità della sapienza e della scienza di Dio è talmente profonda e immensa che, per quanto l’anima ne possa conoscere, può sempre più penetrarvi, perché la sapienza divina è immensa e le sue ricchezze insondabili, come esclama san Paolo: O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! (Rm 11,33).
7. Ora l’anima desidera entrare in questa profondità e incomprensibilità dei giudizi e delle vie di Dio, perché muore dal desiderio di addentrarsi più profondamente nella loro conoscenza; conoscerli, infatti, è gioia inestimabile che supera ogni sentimento. Per questo, quando Davide parla della loro soavità, si esprime così: Iudicia Domini vera, justificata in semetipsa, desiderabilia super aurum, et lapidem pretiosum multum, dulciora super mel et favum; nam et servus tuus dilexit ea: I giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante. Anche il tuo servo in essi è istruito (Sal 18,10-12). Ecco perché l’anima desidera ardentemente inabissarsi in questi giudizi e conoscerli più a fondo; pur di riuscirci, sarebbe disposta ad accogliere, con grande serenità e gioia, tutte le asperità e le fatiche del mondo, tutto quanto le potrebbe servire da mezzo a tale scopo, per quanto difficile e penoso le possa essere.
8. Questo verso significa altresì la profondità delle prove e delle tribolazioni che l’anima desidera affrontare dicendo: dove è più folto dentro penetriam, cioè nelle profondità delle angosce e sofferenze che permettono di addentrarsi nella profondità della sapienza di Dio, fonte di delizie; più la sofferenza è pura, più essa produce una conoscenza pura e, di conseguenza, una gioia più pura ed elevata perché più profonda. Pertanto, non contenta di una sofferenza qualsiasi, dice: dove è più folto dentro penetriam. Ecco perché Giobbe, desideroso di soffrire, ha detto: Quis det ut veniat petitio mea, et quod expecto tribuat mihi Deus? Et qui coepit, ipse me conterat, solvat manum suam, et succidat me? Et haec mihi sit consolatio, ut affligens me dolore, non parcat mihi?: Oh, mi accadesse quello che invoco, e Dio mi concedesse quello che spero! Colui che ha cominciato mi finisca, stenda la mano e mi sopprima! Ciò mi sarebbe di conforto, che in mezzo ai mali non mi risparmi né mi dia sollievo (Gb 6,8-10 Volg.).
9. Oh, se riuscissimo a comprendere, una buona volta, che è impossibile pervenire alle profondità della sapienza e delle ricchezze di Dio senza penetrare nel folto delle svariate sofferenze, riponendo in queste la nostra gioia e i nostri desideri! L’anima che desidera veramente la sapienza divina, desidera anzitutto penetrare nella sofferenza, cioè nella profondità della croce, che è il cammino della vita che pochi percorrono. Tutti desiderano entrare nelle profondità della sapienza, delle ricchezze e delle delizie di Dio, ma pochi desiderano affrontare seriamente le sofferenze e i dolori sopportati dal Figlio di Dio; così come sono molti coloro che vorrebbero essere già arrivati alla meta senza passare per la via stretta che vi conduce.
STROFA 36
Poi alle profonde
caverne di pietra ce ne andremo,
son ben nascoste esse,
e lì ci addentreremo,
di melagrane il succo gusteremo.
SPIEGAZIONE
1. Uno dei motivi che spingono più fortemente l’anima a desiderare di addentrarsi nel folto, ossia nelle profondità della sapienza di Dio e conoscere più da vicino i suoi giudizi è, come ho detto, poter unire il suo intelletto a Dio e conoscere i reconditi misteri dell’incarnazione del Verbo, che è per lei la più alta e soave sapienza. Ma non si arriva a possederne una conoscenza chiara se non entrando prima nelle suddette profondità della sapienza di Dio e senza fare esperienza delle prove spirituali. Per questo, nella presente strofa, la sposa dice che, dopo essere entrata più intimamente nella Sapienza divina e nelle prove, conoscerà e penetrerà gli eccelsi misteri del Dio-uomo, misteri sublimi in sapienza e nascosti in Dio. L’anima e lo Sposo si addentreranno nella conoscenza di tali misteri, immergendosi completamente in essi. Così entrambi potranno mettere la loro gioia e le loro delizie nella soavità che deriva dalla conoscenza di questi misteri delle virtù e degli attributi che, grazie ad essi, si scoprono in Dio, come la giustizia, la misericordia, la sapienza, ecc. Poi alle profonde / caverne di pietra ce ne andremo.
2. La pietra di cui l’anima parla qui, secondo san Paolo, è Cristo: Petra autem erat Christus (1Cor 10,4). Le profonde caverne di pietra sono gli alti, sublimi e profondi misteri della sapienza di Dio, presente in Cristo, che riguardano l’unione ipostatica della natura umana con il Verbo divino, la correlazione che esiste tra quest’unione e quella degli uomini con Dio; l’armonia tra la giustizia e la misericordia di Dio nella salvezza del genere umano; la manifestazione dei suoi giudizi, che, a motivo della loro sublimità e profondità, molto giustamente sono chiamati profonde caverne: profonde, per la sublimità dei misteri divini; caverne per l’ insondabilità e immensità della sapienza di Dio racchiusa in essi. Come le caverne sono profonde e hanno molte sinuosità, così ogni mistero del Cristo è molto profondo in sapienza e contiene molti recessi dei suoi segreti disegni sulla predestinazione e la prescienza riguardanti i figli degli uomini. Per questo la sposa aggiunge subito: son ben nascoste esse.
3. Per quanti misteri e meraviglie abbiano scoperto i santi dottori o abbiano contemplato le anime sante in questa vita, la maggior parte è rimasta inespressa e ancora da comprendere. Resta molto da approfondire nel Cristo! Egli è come una ricca miniera piena di molte vene di tesori, delle quali, per quanto sfruttate, non si riuscirà mai a toccare il fondo o a vedere il termine; anzi, in ogni sinuosità, qua e là, si trovano nuovi filoni di altre ricchezze. Ciò faceva dire a san Paolo, parlando del Cristo: In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae Dei asconditi: In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3). In essi l’anima non può penetrare, né può raggiungerli, come ho detto, se prima non passa per l’oscurità della sofferenza interiore ed esteriore, se non dopo che ha ricevuto da Dio molti favori intellettuali e sensibili e ha fatto molto esercizio spirituale. Difatti tutti queste cose sono inferiori, anzi sono disposizioni per arrivare alle profonde caverne della conoscenza dei misteri di Cristo, che è la sapienza più alta che si possa raggiungere in questa vita. Per questo, a Mosè che chiedeva di mostrargli la sua gloria, Dio rispose che in questa vita non avrebbe potuto vederla; gli avrebbe però mostrato ogni bene (Es 33,18-20 Volg.), vale a dire tutto quello che poteva essere visto quaggiù. Facendolo entrare nella caverna di pietra che, come ho detto, è Cristo, gli mostrò le sue spalle (Es 33,21-23), cioè gli rivelò i misteri delle sue opere, soprattutto quelli dell’incarnazione del Figlio.
4. È in queste caverne che l’anima desidera entrare per essere assorbita, trasformata e completamente inebriata nell’amore che le offrirà la conoscenza di questi misteri, nascondendosi nel petto del suo Amato. In queste caverne egli la invita a entrare con le parole del Cantico dei Cantici: Surge, propera, amica mea, speciosa mea, et veni, columba mea, in foraminibus petrae, in caverna maceriae: Alzati, affrettati, amica mia, mia bella, e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi (Ct 2,13-14). Queste fenditure sono le caverne di cui sto parlando. Di esse la sposa dice: e lì ci addentreremo.
5. Lì, cioè nella conoscenza dei misteri divini, noi ci addentreremo. La sposa non dice mi addentrerò da sola, ma ci addentreremo, cioè io e l’Amato, per far capire che non è lei a compiere quest’opera, ma lo Sposo insieme a lei. Del resto, poiché Dio e l’anima sono strettamente uniti in questo stato di matrimonio spirituale, di cui sto parlando, l’anima non fa più niente da sola senza Dio. Dire: lì ci addentreremo significa: lì noi ci trasformeremo in forza delle nuove conoscenze, nuovi disegni e comunicazioni d’amore. Infatti, anche se l’anima si esprime in questo modo, essa è già trasformata di fatto dallo stato del matrimonio spirituale (benché, come ho detto, sostanzialmente non le si aggiunga nulla); non per questo cessa di avere nuove illuminazioni e trasformazioni grazie alle nuove conoscenze e luci divine; anzi essa riceve, molto frequentemente, le illuminazioni di nuovi misteri che Dio le comunica, dati i rapporti che esistono tra loro due. Egli glieli comunica nel più profondo del suo essere, ed essa entra di nuovo in Dio secondo la conoscenza di questi misteri che scopre in lui. Grazie a tale conoscenza, lo ama di nuovo intimamente e sublimemente, trasformandosi in lui a misura di queste nuove conoscenze. Sono, altresì, del tutto ineffabili la gioia e il diletto che l’anima riceve di nuovo, cose di cui parla nel verso seguente: di melagrane il succo gusteremo.
6. Le melagrane qui significano i misteri di Cristo, i giudizi della sapienza di Dio, le virtù e gli attributi di Dio, che la conoscenza di questi misteri permette di scoprire in Dio. Come le melagrane hanno molti chicchi, nati e cresciuti in quell’involucro rotondo, così ogni virtù, attributo, mistero e giudizio di Dio contiene in sé una moltitudine di svariati effetti e di meravigliose disposizioni di Dio, contenute e sostentate nel seno sferico della virtù e del mistero che riguarda quei determinati effetti. Notiamo qui la forma circolare o sferica della melagrana, perché per ogni melagrana intendiamo una virtù o un attributo di Dio; questo attributo o virtù di Dio è Dio stesso, rappresentato dalla forma circolare o sferica, perché non ha principio né fine.
7. Il succo di queste melagrane, che la sposa dice gusteranno, è la fruizione che l’anima gode, secondo la misura possibile in questo stato, nella conoscenza e penetrazione di questi misteri e il diletto dell’amore divino che gusta in essi. Come dai molti chicchi delle melagrane esce un unico succo, così dalla conoscenza di tutte queste meraviglie e grandezze di Dio si riversa nell’anima una fruizione e un piacere d’amore. Subito la sposa offre tutto al suo Dio, con grande tenerezza d’amore. Tutto ciò essa l’aveva promesso, nel Cantico dei Cantici, allo Sposo, se egli le avesse concesso questa sublime conoscenza: Ibi me docebis, et dabo tibi poculum ex vino condito, et mustum malorum granatorum meorum: Là m’insegnerai l’arte dell’amore e io ti farò bere vino aromatico, del succo delle mie melagrane (Ct 8,2). Chiama sue queste melagrane, anche se appartengono a Dio, perché Dio gliel’ha date, ed ella gliele restituisce come se fossero sue. Ciò è quanto intende dire quando afferma: di melagrane il succo gusteremo. Quando egli lo gusta, infatti, lo fa gustare anche a lei; e se lei lo gusta, lo fa nuovamente gustare a lui; e così il piacere è comune.
STROFA 37
Là tu mi mostrerai
ciò che l’alma mia desiderava
e dopo mi darai,
là, tu vita mia,
ciò che l’altro dì m’hai già donato.
SPIEGAZIONE
1. Il motivo per cui l’anima desidera entrare in quelle caverne è per poter arrivare compiutamente, compatibilmente con lo stato di questa vita, a ciò che ha sempre desiderato, cioè la consumazione dell’amore assoluto e perfetto che le viene comunicato in questo favore celeste, perché il fine di tutto è l’amore. Essa vuole, altresì, raggiungere perfettamente nello spirito i diritti e la purezza dello stato di giustizia originale. In questa strofa, quindi, dice due cose; la prima, che lo Sposo le mostrerà lì, cioè in quella trasformazione di conoscenze, ciò che essa ha sempre perseguito nei suoi atti e propositi, cioè le insegnerà ad amare perfettamente il suo Sposo come si ama lui, insieme con le altre cose che verranno spiegate nella strofa seguente; la seconda, che lì le concederà anche la santità e la purezza che le aveva concesso nello stato di giustizia originale, o nel giorno del battesimo, purificandola completamente da tutte le sue imperfezioni e da tutte le sue macchie passate, come fece allora. Là tu mi mostrerai / ciò che l’alma mia desiderava.
2. Quest’attesa è l’uguaglianza d’amore che l’anima ha sempre desiderato naturalmente e soprannaturalmente, perché l’amante non può dirsi soddisfatto se non sente di amare quanto è amato. Ora l’anima constata quanto sia immenso l’amore con cui Dio la ama, e non vuole amarlo, a sua volta, in maniera meno alta e perfetta; per questo l’anima desidera la trasformazione attuale, perché non può raggiungere questa uguaglianza e completezza d’amore se non nella trasformazione totale della sua volontà nella volontà di Dio, con cui le due volontà si fondono in maniera tale da diventare una; così si ha uguaglianza d’amore. La volontà dell’anima, infatti, trasformata in volontà di Dio, è interamente volontà di Dio; la volontà dell’anima, però, non è distrutta, ma trasformata in volontà di Dio; l’anima, quindi, ama Dio con la volontà di Dio, che però è anche volontà sua. In questo modo potrà amarlo come essa è amata da Dio, amandolo con la volontà stessa di Dio, nello stesso Amore con cui lui la ama, che è lo Spirito Santo. Questi, infatti, è donato all’anima, come dice l’Apostolo: Gratia Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis: L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5). Perciò l’anima ama, nello Spirito Santo, Dio insieme con lo Spirito Santo, non come strumento, ma insieme con lui, in forza della trasformazione, come dirò subito. Lo Spirito supplisce a ciò che manca nell’anima, perché essa si è trasformata in lui per amore.
3. Per questo l’anima non dice che lo Sposo lì le darà il suo amore, ma che le mostrerà come essa deve amarlo. Sebbene, infatti, sia vero che Dio le concede il suo amore, tuttavia più propriamente si dice che lì le mostra l’amore, cioè le insegna ad amarlo come egli ama se stesso. Avendoci Dio amati per primo, c’insegna ad amare puramente e completamente come lui ci ama. Ora in questa trasformazione, in cui si comunica all’anima, Dio le mostra un amore totale, generoso e puro, con cui egli si comunica tutt’intero ad essa, con una tenerezza ineffabile, trasformandola nel suo amore, comunicandole quindi il suo amore con cui essa possa riamarlo. Più precisamente, si tratta di mostrarle come deve amare, mettendole uno strumento fra le mani, indicandole come servirsene, adoperandolo insieme ad essa; ecco perché qui l’anima ama Dio come da lui è amata. Non intendo dire che amerà Dio quanto lui si ama, ciò che non è possibile, ma quanto da lui è amata; perché quando conoscerà come anch’essa è conosciuta (1Cor 13,12), così l’amerà come è amata da Dio, perché entrambi hanno lo stesso amore. Di conseguenza, l’anima non solo apprende ad amare, ma è divenuta anche maestra in amore, perché è unita al Maestro stesso e, quindi, è contenta, mentre non lo era prima di raggiungere quest’amore. Essa ama Dio in maniera perfetta, con lo stesso amore con cui egli si ama. Questo non è uno stato che si possa raggiungere completamente in questa vita, sebbene nel presente stato di perfezione, che è quello del matrimonio spirituale, di cui sto parlando, in certa misura sia possibile.
4. Da questo grado di amore perfetto nasce nell’anima un intimo e sostanziale giubilo in Dio, poiché sembra – ed è così – che tutta la sostanza dell’anima, inondata di gloria, esalti Dio; sotto forma di fruizione, sente un’intima dolcezza da cui è spinta a lodare, adorare, stimare ed esaltare Dio con grande gioia, tutta ardente d’amore. Questo non accadrebbe se Dio non le avesse dato nel suddetto stato di trasformazione una grande purezza, come quella dello stato d’innocenza o del candore battesimale. Qui l’anima aggiunge che lo Sposo le accorderà tale purezza in questa trasformazione d’amore, dicendo: e dopo mi darai, / là, tu vita mia, / ciò che l’altro dì m’hai già donato.
5. Chiama l’altro dì lo stato di giustizia originale, nel quale Dio aveva dato ad Adamo la grazie e l’innocenza, oppure il giorno del battesimo, in cui l’anima ha ricevuto una santità e una purezza totale. In questi versi l’anima chiede questi doni nell’unione stessa d’amore. A questo allude nell’ultimo verso, quando afferma: ciò che l’altro dì m’hai già donato, perché, come ho detto, l’anima giunge a tale santità e candore in questo stato di perfezione.
STROFA 38
Dell’aure il respiro,
il canto della dolce filomena,
il bosco e il suo incanto
nella notte serena,
con fiamma che consuma e non dà pena.
SPIEGAZIONE
1. Nella strofa precedente ho detto che la sposa chiedeva due cose: la prima era l’oggetto dei suoi desideri; la seconda era che lo Sposo le desse ciò che le aveva dato un tempo, come ho appena spiegato. Quanto alla prima richiesta, che consisteva nell’oggetto dei suoi desideri, l’anima ora ne va esplicitando la natura in questa strofa: non si tratta soltanto, come dicevo, dell’amore perfetto, ma anche di tutto ciò che è contenuto nella presente strofa, cioè l’amore stesso e ciò che, tramite esso, viene comunicato all’anima. Questa indica, dunque, le cinque cose che racchiudono tutti i suoi desideri. La prima è il respiro dell’aure, ossia l’amore di cui parlavo, che è ciò che soprattutto cerca. La seconda è il canto della dolce filomena, cioè il giubilo che prova nel lodare Dio. La terza è il bosco e il suo incanto, che è la conoscenza delle sue creature e l’armonia che regna in esse. La quarta è contemplazione pura e sublime. La quinta è fiamma che consuma e non dà pena; essa è quasi compresa nella prima richiesta, in quanto è fiamma di soave trasformazione d’amore nel possesso di tutte queste cose. Dell’aure il respiro.
2. Questo respiro dell’aure è una proprietà dello Spirito Santo, che l’anima chiede per amare perfettamente Dio. La chiama respiro dell’aure perché è un tocco soavissimo e un sentimento d’amore che si produce abitualmente nell’anima con la comunicazione dello Spirito Santo. Egli, con il suo spirare divino, innalza l’anima in maniera sublime e la informa, affinché produca in Dio la stessa spirazione d’amore che il Padre spira nel Figlio e il Figlio nel Padre, che è lo stesso Spirito Santo, che in questa trasformazione spira in essa.. Non sarebbe, infatti, vera trasformazione se l’anima non si unisse e si trasformasse anche nello Spirito Santo, come nelle altre due Persone divine, anche se si realizza in forma oscura e non manifesta, data la bassa condizione di questa vita. Ciò costituisce per l’anima una gloria molto alta e un piacere assai profondo e sublime, che non è possibile esprimere a parole né comprendere umanamente nella sua vera natura.
3. L’anima, quindi, unita e trasformata in Dio, spira in Dio a Dio la stessa spirazione divina con cui Dio spira se stesso a lei, nella quale è presente. Credo volesse dire questo san Paolo quando scriveva: Quoniam autem estis filii, misit Deus Spiritum Filii sui in corda vestra clamantem: Abba, Pater: Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! (Gal 4,6). Questo accade ai perfetti nella maniera suddetta. Non dobbiamo stupirci che l’anima possa realizzare una cosa così sublime, perché, dal momento che Dio le concede la grazia di arrivare ad essere deiforme e unita alla santissima Trinità, nella quale l’anima diventa Dio per partecipazione, perché dovrebbe essere incredibile che svolga le sue attività d’intelletto, di conoscenza e d’amore nella Trinità strettamente unita a lei e attiva come la stessa Trinità, anche se per partecipazione, mentre è Dio stesso che opera nell’anima?
4. Come ciò avvenga non è possibile sapere né dire. Si può solo affermare che il Figlio di Dio ci ottenne questo stato così sublime e ci meritò la preziosa grazia di poter essere figli di Dio, come dice san Giovanni (1Gv 1,12). La chiese Gesù stesso al Padre: Pater, volo ut quos dedisti mihi, ut ubi sum ego, et illi sint mecum: ut videant claritatem meam quam dedisti mihi: Padre, voglio che anche quelli che mi hai dati, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai data (Gv 17,24). Ciò vuol dire: che essi compiano per partecipazione in noi la stessa opera che compio io per natura, cioè spirare lo Spirito Santo. E aggiunge: Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola… E la gloria che tu hai data a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me (Gv 17,20-23). Il Padre, cioè, comunica loro lo stesso amore comunicato al Figlio, sebbene non naturalmente come al Figlio, ma per unione e trasformazione d’amore. Anche qui non bisogna credere che il Figlio voglia dire al Padre che i santi siano una sola cosa per essenza e per natura come lo sono il Padre e il Figlio, ma che lo siano per unione d’amore, come il Padre e il Figlio lo sono per unità d’amore. Le anime, dunque, possiedono per partecipazione gli stessi beni che Dio possiede per natura, ragion per cui sono veramente dèi per partecipazione, uguali a Dio e suoi compartecipi. Per questo san Pietro scrive: Grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Cristo Signore nostro. La sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventassimo per loro mezzo partecipi della natura divina (2Pt 1,2-4). L’anima, dunque, partecipa della natura di Dio, compiendo in lui e con lui l’opera della santissima Trinità, nel modo descritto, a motivo dell’unione sostanziale tra lei e Dio. Certo, questa realtà meravigliosa si compirà in maniera perfetta, nell’altra vita; tuttavia già in questa l’anima, pervenendo allo stato di perfezione, la intravede a grandi tratti e ne gusta le primizie, anche se, torno a dire, è impossibile esprimere tutto ciò a parole.
5. O anime create per simili grandezze e ad esse chiamate, che fate? In cosa vi intrattenete? Le vostre pretese non sono che bassezza e i vostri beni miseria. Oh, infelice cecità! Gli occhi della vostra anima non vedono più. Sono ciechi dinanzi a una luce così abbacinante! Le vostre orecchie sono sorde allo strepito di voci così potenti! Come non vi accorgete che, mentre cercate le grandezze e la gloria di quaggiù, rimanete miserabili e vili, ignoranti e indegne di tesori così preziosi? Segue la seconda richiesta dell’anima: il canto della dolce filomena.
6. Da quel respiro dell’aure nell’anima nasce il canto della dolce filomena. Infatti, come il canto della filomena, cioè dell’usignolo, si ode a primavera, quando ormai sono passati il freddo e le piogge dell’inverno, ed è melodia per l’udito e gioia per lo spirito, così avviene in questa comunicazione e trasformazione d’amore, di cui la sposa gode già in questa vita. Ormai al sicuro e libera da tutti i turbamenti e le vicende terrene, spoglia e purificata dalle imperfezioni, pene e nebbie naturali, ella avverte come una nuova primavera nello spirito. Ivi sente la dolce voce dello Sposo, suo dolce usignolo. È lui che rinnova e ristora la sostanza della sua anima e le sussurra: Alzati, affrettati, amica mia, colomba mia, mia bella e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo della potatura è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna (Ct 2,10-12 Volg.).
7. Nella voce dello Sposo, che risuona nell’intimo dell’anima, la sposa avverte che tutti i suoi mali sono cessati e che comincia a godere dei beni celesti. Con questo conforto, sostegno e sentimento di grande delizia, anch’ella, quale dolce usignolo, fa risuonare la sua voce e innalza a Dio un nuovo canto di giubilo, insieme con Dio che a ciò la spinge. Per questo egli le presta la sua voce, perché all’unisono con lui la indirizzi a Dio. Questo è il volere e il desiderio dello Sposo, che cioè l’anima intoni il suo canto spirituale di lode a Dio, come egli stesso le chiede nel Cantico dei Cantici con queste parole: Alzati, affrettati, amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro (Ct 2,13-14). Il fammi sentire indica che Dio vuole che lo lodiamo perfettamente; la voce che chiede alla sposa è lode perfetta e piena di giubilo per Dio. Per essere perfetta, come dice lo Sposo, questa voce deve risuonare nelle profonde caverne di pietra, che sono le conoscenze amorose dei misteri di Cristo, nelle quali l’anima è unita a lui. Poiché in questa unione l’anima esulta lodando Dio con Dio stesso, come si diceva dell’amore, è lode perfetta e gradita a Dio la sua. Vivendo l’anima in uno stato di perfezione, compie opere perfette, e così questo canto di giubilo è dolce per Dio e per l’anima stessa. Dice, infatti, lo Sposo: La tua voce è soave (Ct 2,14) non solo per te, ma anche per me, perché, essendo un tutt’uno con me, spieghi la tua voce in una dolce melodia per me e insieme a me. Il bosco e il suo incanto.
8. La terza cosa che l’anima chiede di vedere tramite l’amore è il bosco e il suo incanto. Per bosco intende Dio con tutte le creature che sono in lui; come tutti gli alberi e le piante hanno la loro vita e la loro radice nel bosco, così le creature celesti e terrene hanno la loro origine e la loro vita in Dio. L’anima, quindi, dice che le si mostrerà Dio in quanto vita ed essere di tutte le creature, riconoscendo in lui il loro principio e la causa per cui sussistono; e conoscerà anche le creature, perché senza di lui l’anima non ha nulla, né le interessa conoscerle per via spirituale. L’incanto del bosco è un altro desiderio ardente dell’anima; esso è la grazia, la sapienza e la bellezza di Dio non solo in tutte le singole creature, ma anche nella sapiente armonia esistente tra di loro, sia tra quelle superiori che tra quelle inferiori. È una conoscenza, questa, delle creature per via contemplativa, che suscita nell’anima un profondo diletto, perché significa conoscere qualcosa di Dio. Segue la quarta richiesta: nella notte serena.
9. Questa notte nella quale l’anima desidera vedere le meraviglie menzionate sopra, è la contemplazione. Infatti la contemplazione è oscura, ragion per cui le si dà un altro nome, quello di «teologia mistica», espressione che significa sapienza nascosta e segreta di Dio. In essa, senza rumore di parole e senz’aiuto di alcun senso corporale o spirituale, come nel silenzio e nella quiete della notte, all’oscuro di ogni realtà sensibile e naturale, Dio istruisce l’anima in un modo nascosto e segreto, senza che essa sappia come. Alcuni autori spirituali chiamano questo insegnamento conoscere senza comprendere. Questo non avviene nell’intelletto che i filosofi chiamano attivo, che opera su forme, immagini e percezioni degli oggetti; avviene nell’intelletto in quanto possibile o passivo, il quale non riceve quelle forme, ecc., ma solo passivamente riceve una conoscenza sostanziale, che gli è comunicata senza sforzo alcuno o attività da parte sua.
10. Per questo l’anima chiama la contemplazione notte, non solo, ma notte serena. Infatti come la notte si dice serena quando è sgombra di nubi e di vapori dell’aria che ne possono impedire la serenità, così questa notte della contemplazione per la vista dell’intelletto è chiara e libera da tutte le nubi di forme, fantasie o conoscenze particolari, che possono entrare attraverso i sensi; e libera anche da qualsiasi vapore di affetti e tendenze della natura; per questo la contemplazione è notte serena per i sensi e per l’intelletto naturale, come insegna il Filosofo quando afferma: Come il raggio del sole è oscuro e tenebroso per l’occhio del pipistrello, così le conoscenze più profonde e chiarissime di Dio sono oscure per il nostro intelletto. Con fiamma che consuma e non dà pena.
11. L’anima chiede che lo Sposo le conceda tutte queste esperienze con fiamma che consuma e non dà pena, cioè con l’amore di Dio ormai perfetto nell’anima. Questo amore, per essere perfetto, deve avere due proprietà: deve consumare e trasformare l’anima in Dio, ma il fuoco e la trasformazione di questa fiamma nell’anima non le devono recare alcuna sofferenza. Questa fiamma è l’amore soave, perché nella trasformazione dell’anima in fiamma, vi è conformità e soddisfazione d’entrambe le parti; di conseguenza l’anima non prova alcuna sofferenza di fronte a questo cambiamento più o meno profondo, come le accadeva prima di possedere l’amore perfetto. Una volta raggiunto quest’amore, l’anima si ritrova completamente trasformata nell’amore di Dio e resa conforme a lui, come lo è il carbone nel fuoco, senza quel fumo e quel crepitio che faceva prima e senza il nerume e quegli altri accidenti che gli erano propri prima di diventare fuoco. Ora, queste proprietà che si chiamano oscurità, fumo, crepitio, abitualmente causano qualche sofferenza e pena all’anima che ama Dio, finché essa non perviene a tale gradi di perfezione d’amore da essere posseduta dal fuoco d’amore. Quest’ultimo la invade tutta e soavemente, senza pene causate da fumo o passioni o avvenimenti naturali. Ed essa si ritrova trasformata da questa dolce fiamma d’amore che l’ha consumata riguardo a tutte le cose della terra e l’ha resa simile a Dio. Così tutele sue opere e le sue azioni sono ormai divenute divine.
12. La sposa chiede che, in questa fiamma, lo Sposo le accordi tutti questi favori che desidera, come si è detto, perché non vuole possederli né valutarli o goderne senza essere bruciata, nello stesso tempo, dall’amore di Dio, perfetto e soave.
STROFA 39
Nessuno ciò guardava,
nemmeno Aminadab più compariva,
l’assedio s’allentava
e la cavalleria
alla vista dell’acque giù venia.
SPIEGAZIONE E ANNOTAZIONE
1. In quest’ultima strofa l’anima vuole mostrare la disposizione in cui si trova per ricevere i favori che si godono in questo stato e che essa ha chiesto allo Sposo divino; senza tale disposizione è impossibile ricevere tali favori o conservarli. Per questo motivo essa sottopone all’Amato quattro disposizioni sufficienti a tale scopo, al fine di obbligarlo ulteriormente a concederle favori. La prima è che l’anima è distaccata ed estranea a tutte le cose create. La seconda è che il demonio è ormai vinto e messo in fuga. La terza è che ha sottomesso le passioni e mortificato gli appetiti naturali. La quarta è che la parte sensitiva è ormai riformata e purificata, nonché conformata con quella spirituale. Di conseguenza, questa parte non solo non le sarà di ostacolo, ma si unirà allo spirito per partecipare dei suoi beni. Tutto questo l’anima espone nella presente strofa, dicendo: Nessuno ciò guardava.
2. Significa: la mia anima è spoglia, distaccata, sola ed estranea a tutte le cose create, sia celesti che terrene; si è, inoltre, addentrata con te in un raccoglimento così profondo, che nessuna di esse riesce a sfiorare l’intimo diletto che provo in te, cioè a procurare piacere alla mia anima con la sua soavità né disgusto e molestia con la sua miseria e bassezza. La mia anima è talmente lontana da esse e immersa in un piacere talmente delizioso con te, che le ha perse di vista. Non solo, ma nemmeno Aminadab più compariva.
3. Nella sacra Scrittura (Ct 6,12) Aminadab rappresenta il demonio, cioè l’avversario dell’anima sposa. Egli la combatteva e la turbava sempre con innumerevoli attacchi e insidie della sua artiglieria, per impedirle d’entrare nella fortezza nascosta del raccoglimento interiore con l’Amato. Dopo che essa vi ha trovato rifugio, l’anima è così forte nelle virtù e così vittoriosa che il demonio non osa avvicinarsi. Essa è talmente protetta dal braccio di Dio e ha riportato una tale vittoria sul demonio con la pratica delle virtù che l’ha scacciato ben lontano, in modo che il maligno non le compare più davanti. Ecco perché, a buon diritto, la sposa dice che neppure Aminadab più compariva. L’assedio s’allentava.
4. Per assedio qui l’anima intende le sue passioni e gli appetiti, che, fin quando non sono vinti e mortificati, la circondano da ogni parte, attaccandola su tutti i fronti. Ecco perché lo chiama assedio. Ora dice che anche tale assedio s’allenta e lo Sposo non tralascia di accordarle i beni che gli ha chiesto, perché l’assedio non può più impedire la pace interiore richiesta per riceverli, possederli e conservarli. L’anima si esprime così, perché in questo stato è necessario che le sue passioni siano sottomesse e gli appetiti o affezioni mortificati, in modo che non le procurino più fastidio o le muovano guerra; anzi il suddetto assedio, con le sue operazioni, si conforma al suo spirito interiore e, a suo modo, si raccoglie per partecipare alle delizie di cui gode lo spirito. Per questo aggiunge subito: e la cavalleria / alla vista dell’acque giù venia.
5. Le acque rappresentano qui i favori e le delizie spirituali, goduti in questo stato dall’anima nella sua intimità con Dio. Per cavalleria, invece, intende le potenze interiori ed esteriori della parte sensitiva, che in questo stato, dice la sposa, vengono giù alla vista delle acque spirituali. Difatti, nel matrimonio spirituale, la parte sensitiva dell’anima è già purificata e, in qualche modo, spiritualizzata, sì che, con le sue potenze sensitive e le sue forze naturali, si raccoglie per partecipare e godere, a suo modo, delle grandezze spirituali che Dio va comunicando nel più profondo dello spirito. Ciò è quanto ci fa capire Davide con queste parole: Cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente (Sal 83,3).
6. Occorre notare che qui la sposa non dice che la cavalleria scendeva a gustare le acque, ma alla vista dell’acque. Difatti la parte sensitiva dell’anima con le sue facoltà non può, propriamente parlando, gustare in maniera essenziale i beni spirituali, non solo in questa vita, ma nemmeno nell’altra. Riceve, però, da tali beni, per una certa sovrabbondanza dello spirito, sollievo e diletto. È lo spirito che attira le facoltà e i sensi del corpo al raccoglimento interiore, dove l’anima beve le acque dei beni spirituali. Questo è un discendere alla vista dei beni spirituali piuttosto che gustarli in quanto tali. Ma le potenze e i sensi gustano, come ho detto, ciò che dall’anima ridonda in essi. L’anima dice qui che la cavalleria giù venia, cioè scendeva. Adopera questa espressione, piuttosto che un’altra, per far sapere che tutte queste potenze scendono e lasciano le loro attività naturali per entrare nel raccoglimento interiore. Piaccia al Signore Gesù, dolcissimo Sposo, condurre a questo sublime stato tutti coloro che invocano il suo nome santissimo. Sia onore e gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, in saecula saeculorum. Amen.