La convalescenza e' una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l'angoscia del male; e non mai l'anima umana più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della morte. Comprende l'uomo, nel guarire, che il pensiero, il desiderio, la volontà, la conscienza della vita non sono la vita. Qualche cosa è in lui più vigile del pensiero, più continua del desiderio, più potente della volontà, più profonda anche della conscienza; ed è la sostanza, la natura dell'essere suo. Comprende egli che la sua vita reale è quella, dirò così, non vissuta da lui; è il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive; è l'attività armoniosa e misteriosa della vegetazione animale; è l'impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte le rinnovellazioni. Quella vita appunto in lui compie i miracoli della convalescenza: richiude le piaghe, ripara le perdite, riallaccia le trame infrante, rammenda i tessuti lacerati, ristaura i congegni degli organi, rinfonde nelle vene la ricchezza del sangue, riannoda su gli occhi la benda dell'amore, rintreccia d'intorno al capo la corona de' sogni, riaccende nel cuore la fiamma della speranza, riapre le ali alle chimere della fantasia.
Dopo la mortale ferita, dopo una specie di lunga e lenta agonia, Andrea Sperelli ora a poco a poco rinasceva, quasi con un altro corpo e con un altro spirito, come un uomo nuovo, come una creatura uscita da un fresco bagno letèo, immemore e vacua. Parevagli d'essere entrato in una forma più elementare. Il passato per la sua memoria aveva una sola lontananza, come per la vista il cielo stellato è un campo eguale e diffuso sebbene gli astri sian diversamente distanti. I tumulti si pacificavano, il fango scendeva dall'imo, l'anima facevasi monda; ed egli rientrava nel grembo della natura madre, sentivasi da lei maternamente infondere la bontà e la forza.
Ospitato da sua cugina nella villa di Schifanoja, Andrea Sperelli si riaffacciava all'esistenza in cospetto del mare. Poiché ancóra in noi la natura simpatica persiste e poiché la nostra vecchia anima abbracciata dalla grande anima naturale palpita ancóra a tal contatto, il convalescente misurava il suo respiro sul largo e tranquillo respiro del mare, ergeva il suo corpo a similitudine de' validi alberi, serenava il suo pensiero alla serenità degli orizzonti. A poco a poco, in quegli ozii intenti e raccolti, il suo spirito si stendeva, si svolgeva, si dispiegava, si sollevava dolcemente come l'erba premuta in su' sentieri; diveniva infine verace, ingenuo, originale, libero, aperto alla pura conoscenza, disposto alla pura contemplazione; attirava in sé la cose, le concepiva come modalità del suo proprio essere, come forme della sua propria esistenza; si sentiva infine penetrato dalla verità che proclamava l'Oupanischad dei Veda: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est. » Il gran soffio d'idealità che esalano i libri sacri indiani, studiati e amati un tempo, pareva lo sollevasse. E tornava a risplendergli singolarmente la formula sanscrita, chiamata Mahavakya cioè la Gran Parola: «TAT TWAM ASI »; che significa: « Questa cosa vivente, sei tu. »
Erano i giorni ultimi di agosto. Una quiete estatica teneva il mare; le acque avean tal transparenza che ripetevan con perfetta esattezza qualunque imagine; l'estrema linea delle acque perdevasi nel cielo così che i due elementi parevano un elemento unico, impalpabile, innaturale. Il vasto anfiteatro dei colli, popolato d'olivi, d'aranci, di pini, di tutte le più nobili forme della vegetazione italica, abbracciando quel silenzio, non era più una moltitudine di cose ma una cosa unica, sotto il comune sole.
Il giovine, disteso all'ombra o addossato a un tronco o seduto su una pietra, credeva di sentire in sé medesimo scorrere il fiume del tempo; con una specie di tranquillità catalettica, credeva sentir vivere nel suo petto l'intero mondo; con una specie di religiosa ebrietà, credeva posseder l'infinito. Quel ch'ei provava era ineffabile, non esprimibile neppur con le parole del mistico: « Io sono ammesso dalla natura nel più secreto delle sue divine sedi, alla sorgente della vita universa. Quivi io sorprendo la causa del moto e odo il primo canto degli esseri in tutta la sua freschezza. » La vista a poco a poco mutàvaglisi in visione profonda e continua; i rami degli alberi sul suo capo gli parevan sollevare il cielo, ampliare l'azzurro, risplendere come corone d'immortali poeti; ed egli contemplava ed ascoltava, respirando col mare e con la terra, placido come un dio.
Dov'eran mai tutte le sue vanità e le sue crudeltà e i suoi artifici e le sue menzogne? Dov'erano gli amori e gli inganni e i disinganni e i disgusti e le incurabili ripugnanze dopo il piacere? Dov'erano quegli immondi e rapidi amori che gli lasciavan nella bocca come la strana acidezza di un frutto tagliato con un coltello d'acciaio? Egli non si ricordava più di nulla. Il suo spirito avea fatto una grande renunziazione. Un altro principio di vita entrava in lui; qualcuno entrava in lui, segreto, il quale sentiva la pace profondamente. Egli riposava, poiché non desiderava più.
Il desiderio aveva abbandonato il suo regno; l'intelletto nell'attività seguiva libero le sue proprie leggi e rispecchiava il mondo oggettivo come un puro soggetto della conoscenza; le cose apparivano nella lor forma vera, nel lor vero colore, nella vera ed intera lor significazione e bellezza, precise, chiarissime; spariva ogni sentimento della persona. In questa temporanea morte del desiderio, in questa temporanea assenza della memoria, in questa perfetta oggettività della contemplazione appunto era la causa del non mai provato godimento.